Cristiana mi ha segnalato questo interessante articolo di Fabrizio Gatti, che solitamente fa il suo mestiere di giornalista con un certo criterio, e anche stavolta mi pare abbia colto nel segno.
E' lungo ma vale la pena.
L'emergenza può attendere
di Fabrizio Gatti
Sono molti i Comuni che criticano la gestione dei soccorsi. Tra assenza di coordinamento, mezzi insufficienti e pochi tecnici. Ecco cosa non ha funzionato in Emilia
(12 giugno 2012) Giù dal ponte del Po ti accoglie il silenzio. A sinistra Moglia, l'epicentro lombardo delle scosse che vagano fino a Milano. A destra Gonzaga. Il confine della provincia di Mantova. E là davanti, l'Emilia ferita. Novi. Concordia sul Secchia. Mirandola. San Felice sul Panaro. Carpi. La geografia del risveglio sismico sotto la pianura Padana è un mosaico di campagne, capannoni, campanili. I simboli della distruzione umana ed economica che dal 20 maggio ha ucciso 26 persone.
E bombardato, tra Modena e Ferrara, l'uno per cento del prodotto interno lordo. Proprio qui, sulle tende dei 17 mila sfollati, si sta addensando il loro e il nostro futuro. Quaranta chilometri di faglie, attive dopo quasi 500 anni. Il motore agricolo e industriale del profondo Nord a rischio crolli. E l'emergenza affrontata con 13 giorni di ritardo.
Così come il Friuli e poi l'Irpinia segnarono l'Italia della prima Repubblica, questi ultimi terremoti potrebbero spingerci ancora più giù nella crisi. Il nostro futuro dovrebbe cominciare da un giorno preciso: 31 ottobre 2012. Dieci anni esatti dalla strage di San Giuliano di Puglia, in Molise. La commemorazione di uno scossone, 27 bambini e la maestra schiacciati dalla loro scuola costruita male e ristrutturata peggio. Sulle lacrime di quei genitori, si disse che non sarebbe più successo. Su quel dolore immenso venne modificata la classificazione del rischio sismico nazionale.
Da allora la scienza ha consegnato alla politica mappe e scenari aggiornati. E la politica, le Regioni, i Comuni ammettono adesso di non averli studiati. Così, ancora una volta, piangiamo morti non per un super terremoto, ma per onde da 5.9 gradi della scala Richter: un'intensità che gli standard definiscono "moderata". Ancora una volta tolleriamo che a cadere siano non solo le fabbriche, ma le pareti e i soffitti di 121 scuole totalmente inagibili su 219 e 17 asili su 50 danneggiati. Soltanto l'ora notturna della prima scossa ha probabilmente evitato altre stragi. Ventisette bambini traditi. Dieci anni buttati via. Storie del terremoto che la retorica televisiva e on line non ha raccontato.
Il silenzio della campagna padana, in queste notti calde, dovrebbe essere punteggiato di lucciole. Sull'orizzonte nero brillano invece i lampeggianti blu di una colonna di soccorso. Arrivano. E' stata un'emergenza a scoppio ritardato. Dal 20 maggio al 2 giugno. Tredici giorni, quattro scosse sopra i 5 gradi e quasi 30 morti. Soltanto sabato scorso, festa della Repubblica, il capo dipartimento della Protezione civile, Franco Gabrielli, firma finalmente l'ordinanza che istituisce la Dicomac a Bologna, la direzione di comando e controllo. Pronti a partire? Non tutti. La sera prima, le 18,45 di venerdì primo giugno, l'Ufficio coordinamento di Roma spedisce al personale l'e-mail intitolata: "Terem-procedura richiesta missioni". E' scritta in burocratese, ma vale la pena leggerla: "Per il personale inviato nelle zone colpite dal sisma, si ritiene utile inviare le seguenti informazioni: 1) La funzione di supporto o la segreteria dell'ufficio di appartenenza deve inviare alla segreteria di coordinamento la richiesta di autorizzazione alla missione per il proprio personale, indicando destinazione e data di partenza e rientro; 2) La segreteria di coordinamento provvede all'inoltro della richiesta alla funzione personale dandone contestuale informazione al dipendente e all'ufficio di appartenenza; 3) La funzione personale predispone il foglio di missione, sottoponendolo alla firma e alla protocollazione, curando la sua conservazione sino al ritiro da parte di ciascun dipendente". Questa non è la trafila ordinaria. E' la procedura d'emergenza.
Franco Gabrielli Martedì 5 giugno, 17 giorni dopo la prima scossa, a Mirandola il medico del paese, Alessandro Ghedini, visita i pazienti in mezzo ai passanti. Senza riservatezza, sotto un ombrellone. La mattina il dottor Ghedini protesta davanti alla telecamera di SkyTg24. Dice che a lui e ad altri medici della zona servirebbero container. Dentro cui ricevere civilmente i malati con rispetto della privacy. Se ci fosse un camion a disposizione, si potrebbe dar loro una mano. E andare all'ex deposito dell'Esercito a Capua, provincia di Caserta. Lì migliaia di moduli abitativi della Protezione civile, cioè di ciascun contribuente, da anni stanno marcendo abbandonati. La mattina di martedì 29 maggio, un'ora dopo la strage della seconda scossa, sempre a Mirandola il Comune cerca via Internet ingegneri e geometri per mandarli a verificare l'agibilità di case e capannoni. Nove giorni dopo il primo terremoto sindaci e imprenditori devono ancora arrangiarsi. Ma non tutti gli ingegneri, gli architetti, i geometri della zona, anche se iscritti all'albo, sono esperti strutturisti. Cioè preparati a valutare la resistenza del cemento armato. Soprattutto sopra questo sottosuolo ricco di argille, sabbia e acqua dove l'amplificazione locale delle onde sismiche e la liquefazione ha provocato qua e là effetti da super terremoto.
La ricerca di specialisti in strutture anti sismiche non è comunque un problema soltanto nei paesi colpiti dai crolli. Lo è anche a Roma. Il 7 maggio, due settimane prima delle scosse in Emilia, la presidenza del Consiglio pubblica un bando con relativa base d'asta da 45 mila euro: per "l'affidamento dell'incarico professionale finalizzato alla verifica del livello di adeguatezza sismica della sede dipartimentale di via Ulpiano 11 a Roma". Gli uffici di via Ulpiano sono da anni il cuore della Protezione civile italiana. Ma solo adesso si scopre che nessuno ha mai controllato se la sede del dipartimento nazionale sia in grado o no di sopravvivere a un terremoto. Un paradosso da colmo dei colmi per un ufficio pubblico e strategico che costa agli italiani 648 mila euro l'anno di affitto. Oltre ai 4 milioni e 400 mila euro di canone spesi per l'altra base romana, in via Vitorchiano 4, a sua volta a rischio alluvione in caso di piena del Tevere. Il personale alla Protezione civile non mancherebbe, secondo le cifre rivelate dall'ex capo Guido Bertolaso: 579 dipendenti e 39 dirigenti, più i consulenti. Eppure l'istituzione che dovrebbe studiare e prevenire gli effetti dei terremoti in Italia deve rivolgersi all'esterno. Così nel giro di pochi giorni ecco il bando per le verifiche antisismiche sui propri uffici a Roma. I sopralluoghi affrettati, affidati invece a professionisti privati in Emilia. Le odiose liberatorie chieste ai lavoratori per manlevare gli imprenditori in caso di nuovi crolli. E il record singolare di questa tragedia: fa più morti il secondo terremoto, nonostante sprigioni meno energia del primo.
La mancanza di una mente nel coordinamento dei soccorsi la si vede a San Possidonio: l'arrivo della colonna della Protezione civile inviata dalla Regione Lazio. Ottanta mezzi, gli adesivi della Regione bene in vista sulle portiere. Alla fine sono gli sfollati a rifocillare i 300 volontari sfiniti da una notte di viaggio. Prima colazione e bottiglie d'acqua. Mancano i gruppi elettrogeni. La mensa è insufficiente. Le tende sono troppe. I 300 montano quello che serve e tornano a Roma. Per loro non c'è posto. Era necessario far partire due chilometri di colonna? Chi ha deciso? Chi paga? "Una gestione scarsamente preparata", spiega un tecnico che lavora al censimento dei danni per il Comune di Finale Emilia e chiede l'anonimato, "ha fatto sì che il sistema andasse in tilt. In tutti i paesi si sta purtroppo navigando a vista. Mandano le squadre a disposizione nei luoghi dove i riflettori dei media sono perennemente accesi. Dimenticandosi però delle altre località".
La soluzione sarebbe forse il gemellaggio. Lo ripete da anni Piero Moscardini, un operativo del dipartimento della Protezione civile che di emergenze ne ha affrontate tante. Dal Friuli all'Abruzzo. Dalla Turchia allo Sri Lanka. Dall'anno scorso Moscardini è in pensione.
"Ogni provincia", spiega, "verrebbe assistita da una serie di altre province e viceversa. Così in caso di calamità, le province gemellate aiuterebbero automaticamente quella colpita. Ai Comuni vanno affiancate figure esterne.
Il funzionario che ha subito un lutto o ha la casa disastrata, non ha la lucidità per gestire i soccorsi. Il gemellaggio va preparato. Funzionerebbe. Ma non si fa".
Il 29 maggio Moscardini è in Emilia a salutare un amico imprenditore. Sono nell'azienda quando arriva la scossa delle 9. Nella zona ci sono feriti. Chiamano i soccorsi. Le linee sono bloccate. Nove giorni dopo la prima forte scossa, i collegamenti dei cellulari non sono stati potenziati. Secondo i testimoni, né con antenne mobili né con impianti supplementari che avrebbero dovuto sostituire i tralicci danneggiati sui tetti.
Come invece è stato fatto a Milano durante la visita del papa. Un milione di fedeli ha potuto così comunicare e inviare foto via mms agli amici.
Non è solo una questione di mancato coordinamento da parte del dipartimento centrale. C'è un altro terremoto che la Protezione civile sta affrontando. Risale al 15 maggio quando il presidente Giorgio Napolitano, firma il decreto legge con le disposizioni urgenti per il riordino del settore. Il 17 maggio il decreto è in vigore. Tre giorni dopo con la prima scossa, si scopre che porta l'Italia dove altri Paesi come gli Stati Uniti hanno fallito. L'emergenza adesso dura cento giorni. Con o senza repliche, al centesimo giorno si smobilita. Ma la novità è soprattutto un'altra: con il nuovo decreto, lo Stato non risarcisce più i cittadini colpiti da calamità naturali. Ci sono le polizze. Un colossale affare per le compagnie assicurative. Almeno fino al primo risarcimento da super terremoto. Chi vuole comunque paga. Tra 90 giorni forse diranno quanto e come. Chi non partecipa, rischia di ritrovarsi senza tetto per sempre. Come cinicamente accade dopo ogni uragano negli Usa. Dalle spese sui Grandi eventi con Guido Bertolaso e Angelo Balducci, allo smantellamento di trent'anni di esperienza che dipendenti e volontari hanno costruito.
In Emilia non c'è nemmeno l'alibi della retorica sul Mezzogiorno. Questa adesso è l'Italia.
"Si rischia addirittura di gettare scompiglio nel meccanismo che con decenni di faticoso rodaggio si era costituito", sostiene in una memoria alla commissione Ambiente della Camera il 28 maggio, il padre fondatore della Protezione civile italiana, Giuseppe Zamberletti. Previsione subito confermata. La confusione è già da anni nei documenti. Basta tornare oltre il Po, verso Brescia. Classificazione sismica identica a quella dei paesi emiliani distrutti. Zona 3, in una scala che ha 1 come massimo. Come Verona, Bergamo, Parma. E chilometri di capannoni simili a quelli crollati. Supermercati, centri commerciali, fabbriche. Pilastri prefabbricati. Stesse travi appoggiate. Stesso pericolo. Proprio all'università di Brescia nel 2006 viene presentato uno studio che rivaluta le faglie attive al confine tra Lombardia e Veneto. Ma il piano di protezione civile del Comune è molto più tranquillizzante. Avverte che la città è stata individuata da un'ordinanza del 1998 del ministero dell'Interno tra i comuni d'Italia ad elevato rischio sismico. Però afferma che "tale individuazione non costituisce dichiarazione di sismicità". Perché, stabilisce il piano comunale, Brescia nel 1984 è stata esclusa "dalla perimetrazione delle aree soggette a tale rischio"
. Ecco come si fa. Non serve cemento armato per costruire rifugi di carta.
espresso.repubblica.it/dettaglio/lemergenza-puo-attendere...[Modificato da (Miss Piggy) 13/06/2012 18:43]