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"SGUARDI" - Riflessioni quotidiane di Laura Bosio

Ultimo Aggiornamento: 02/03/2013 09:17
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31/10/2012 11:06

Salutare Distanza



Nella Rete, di recente, è circolato un video. Una ragazza si affaccia dal finestrino di un treno per farsi riprendere dalla videocamera di un amico, o di un'amica, che assiste alla sua partenza. Scena classica della letteratura, due persone che si separano salutandosi a una stazione, e anche del cinema, dove treni e ferrovie sono presenti fin dai fratelli Lumière. Ma qui capita qualcosa di diverso. La ragazza si dona alla telecamera, si sporge dal finestrino facendo smorfie buffe, occupa tutto lo spazio dell'inquadratura. Non si accorge che sul binario accanto, alle sue spalle, arriva un treno: passa a un soffio dalla sua testa e rischia di decapitarla. Dentro le immagini che avrebbero dovuto fermare quel momento, di saluto allegro, o di allontanamento che tentava di non essere triste, fa irruzione la realtà, con la sua durezza, nella forma di un treno che procede inevitabile sui suoi binari, senza possibilità di scarto. I commenti rischierebbero di essere retorici. Mi limito a considerare questa "irruzione di realtà", al di là delle persone coinvolte e dei loro gesti del tutto quotidiani: come un'occasione per non dimenticarci dei nostri limiti (non scordarli può tramutarsi in un vantaggio) e come salutare distanza dai nostri vanitosi, per quanto ingenui, sogni.

Laura Bosio



_________Aurora Ageno___________
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01/11/2012 09:15




sapere, capire



Sono in treno, il vagone è affollato. Ma il posto vicino al mio, lato finestrino, è vuoto, almeno fino a un minuto prima della partenza, quando si presenta, ansimante, un uomo. Ha una barba lunga e bianca, un corpo imponente, sulle spalle uno zaino che, da come lo scarica a terra, non deve essere leggero. Con una voce sottile, acuta, che contrasta con la sua mole, mi chiede se il posto è libero, poi fa passare pericolosamente lo zaino sopra la mia testa e lo sistema sul sedile. «Dia un occhio, per favore» mi dice allontanandosi traballante lungo il corridoio mentre il treno parte. Armeggia qui e là per sistemare una valigia, altrettanto pesante, e poi deposita anche se stesso sul sedile di fianco, travolgendomi in mille operazioni, alcune funzionali, altre incomprensibili. Tra i vari ammennicoli che ha appesi al collo, c'è un astuccio rettangolare che a un certo punto mi finisce addosso. Glielo passo, lui mi dice un grazie frettoloso e mi dà una gomitata. Mi sposto, seccata. L'uomo apre l'astuccio, tira fuori una scatoletta nera e si mette a sfiorarla da sinistra a destra con le dita. Che cosa starà facendo? Di colpo intuisco che legge con il metodo Braille. La sua irruenza, i suoi gesti maldestri in un attimo per me cambiano di segno. Mi chiedo a quante cose reagiamo con fastidio senza sapere, senza capire.


Laura Bosio



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02/11/2012 11:48


Il denaro sparito



Settimane, mesi di passione. Numerica. All'ufficio postale, dove sono in coda da mezz'ora, un vecchio malandato tenta di risolvere con l'impiegata una questione di indirizzo sbagliato, anzi di numero civico. Da quello che capisco il numero — «quattordici», si affanna, «abito al quattordici» — gli impedisce di ritirare dei soldi, e non c'è dubbio che ne ha bisogno. Tre sportelli più in là, un uomo, trafelato, compila il modulo delle raccomandate e urla al telefono che salderà i suoi debiti a fine mese, «pago tutto», si angoscia, «lo giuro». A casa accendo la televisione. In cartelli rossi e azzurri si alternano numeri e percentuali negativi e positivi, inscritti dentro frecce a testa in giù e in su. «Sono proiezioni, scenari futuri», spiega la voce rassicurante di un esperto, mentre sul commento scorrono immagini di denaro, nuovo, appena stampato. Il denaro che non vediamo quasi più, perché usiamo le carte di credito e perché in tasca, almeno alla maggior parte di noi, ne è rimasto poco. È come assistere a un teatro della disperazione e della speranza. Ma fuori dallo schermo? Nel film Il bidone di Fellini una banda di truffatori maneggia continuamente le vecchie banconote. Spiegazzate, luride, portano i segni del lavoro, della fatica, degli smerci e dei traffici, della vita come (anche e soprattutto) è.


Laura Bosio



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03/11/2012 10:25



Avida disperazione



Molti anni fa, nel suo diario di ricercatore spirituale, autentico e innovativo, Thomas Merton scriveva una pagina che, mettendo al centro una parola antica, «idolatria», non potrebbe essere più contemporanea. La si trova in un libro il cui titolo italiano, Scrivere è pensare, vivere, pregare, riprende, un po' variata, una sua annotazione del 27 settembre 1958: «Scrivere è pensare e vivere, persino pregare». Viene eliminato il «persino», che invece è significativo. In quella pagina, datata 17 aprile 1965, si legge: «Il grande peccato, fonte di tutti gli altri, è l'idolatria: non è mai stata più grande che oggi, più prevalente. È quasi misconosciuta perché è così totale e travolgente. Entra in ogni cosa, nulla ne è immune. Feticismo del potere, delle macchine, della proprietà, della medicina, dello sport, della moda ecc., il tutto mosso dall'avidità per il denaro e per il dominio. La bomba atomica è solo un aspetto accidentale di questo culto, e paradossalmente neppure il peggiore. Dovremmo tenerne conto come di un segno, una rivelazione dello scopo a cui punta l'insieme della nostra civiltà: l'auto-immolazione dell'uomo alla propria avidità e disperazione. Dietro vi sono i prìncipi e i poteri che l'uomo serve nella sua idolatria. I cristiani vi sono coinvolti quanto chiunque altro». Già, nessuno escluso.



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05/11/2012 10:17



La realtà è ricca



Ennio Flaiano, scrittore, poeta, autore di teatro, di cinema (Fellini, Antonioni, Risi) e di aforismi memorabili, pubblicò un solo romanzo, nel 1947, Tempo di uccidere, energicamente voluto da Leo Longanesi e con il quale vinse la prima edizione del Premio Strega. Ma questo primo e unico romanzo, commenta Gino Ruozzi nel libro che ha appena dedicato a Flaiano (Ennio Flaiano. Una verità personale), pesò su di lui in modo consistente, in positivo e in negativo. Nei decenni successivi gli fu rimproverato più volte di non avere scritto altri romanzi, «come se fosse una colpa, una mancanza grave, il segno di una incompiutezza artistica che ne evidenziava i limiti e condizionava la sua fortuna di scrittore». Forse proprio per questo, nella letteratura del Novecento, troppo ancorata alle sorti della narrativa e della poesia, non ha avuto il posto che meritava, e merita. Flaiano, che ne era consapevole, ne parlò con l'ironia e l'amarezza che lo caratterizzavano al termine di un'intervista, a un tempo reale e immaginaria, uscita nel 1963. «E adesso una domanda indiscreta: perché scrive tanto poco?», «Caro signore, io non ho una vocazione narrativa. Scrivo, che è una cosa molto diversa». Nel suo racconto Melampo aggiunge un dettaglio: la realtà, dice, è più ricca, più esemplare, più forte di quello che si può narrare.


Laura Bosio



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06/11/2012 10:11



Realtà in versi



Un uomo lillipuziano cammina nel cielo vuoto fra il campanile e il tetto di una casa. Le braccia aperte, solleva una gamba, la piega, a gru, poi, dopo avere trovato la posizione perfetta, la appoggia, fa qualche passo sul filo che oscilla e si rimette di nuovo a gru con l'altra gamba. Ruota su se stesso, agita le braccia, ritrova l'equilibrio. Sotto, nella piazza, tra le bancarelle illuminate le persone, a testa in su, trattengono il fiato. Non è una scena della Strada di Fellini, quando Gelsomina guarda incantata il funambolo, che tutti chiamano il Matto, mentre tende il piattino delle offerte «al vostro buon cuore». Questa è una festa patronale in un paese vicino a Milano dove sono capitata per caso e l'uomo, secondo le norme di sicurezza, è imbragato. Ma quando scivola lungo un cavo e atterra sulla piazza l'incanto di ciascuno è quello di Gelsomina. Mi colpisce che nessuno applauda, anch'io sono immobile. L'uomo assomiglia a Philippe Petit, meraviglioso funambolo di cui ho letto una biografia e visto delle foto. Come lui ha i capelli ricci e gli occhi che guardano lontano. Gli stessi del Matto di Fellini. La realtà, immaginaria o in carne e ossa che sia, non si esprime soltanto nella prosa frastornante della cronaca nera. Qualche volta, è stato detto, si esprime in versi.

Laura Bosio



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07/11/2012 09:31



Mistica libertà



Avvicinare le mistiche nei loro scritti finisce per essere, a differenza di quel che potrebbe sembrare a chi non le abbia mai accostate, un'esperienza di libertà. Sì, di libertà. Folli è l'aggettivo più usato per definirle. Ma di cosa è fatta questa "follia"? Che imperdonabili qualità nasconde? Le mistiche sono esigenti, ostinate, implacabili. Si avventurano nei labirinti dell'ignoto, sfidano ogni nebulosità, oscurità, caduta, e i loro viaggi le rendono libere. Non vogliono nulla, non si preoccupano di nulla, il loro cuore è fermo, solo gli occhi vivono, e allora vedono molte cose che non si erano mai viste, e tutto è avvolto in una rete di luce. Chiara d'Assisi, per esempio, con i suoi piedi leggeri che non sollevano la polvere, o Giuliana di Norwich, composta di fronte a "rivelazioni" che farebbero tremare i polsi. Dalle loro pagine erompe una strana serenità. Matilde di Magdeburgo viene ammonita così: «Se andrai lassù, sarai accecata perché l'amore di Dio brucia». Lei risponde, come una cantante blues: «I pesci non possono annegare, né gli uccelli affondare nell'aria! Ogni creatura deve seguire la sua natura… come potrei resistere alla mia?». Ferree, incontenibili, si muovono liberamente secondo un compito non scritto, e trovano una folle, invidiabile tranquillità.


Laura Bosio


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08/11/2012 10:37


Come sonnambuli



Ancora il grande Flaiano. In Ombre bianche, «agghiaccianti favolette satiriche», lo scrittore mostra la trasformazione della società italiana in una società di massa e dello spettacolo. L'io narrante di molti racconti osserva con stupore le stranezze che sono invece la normalità, le consuetudini di una vita ordinaria. Non l'eccezione ma la regola: nulla di eclatante o di straordinario, solo la banale quotidianità, come quella rappresentata anche nel cinema, da Dino Risi, nei profili aforistici del film I mostri, del 1963, a Matteo Garrone, nel nuovo film Reality, con i suoi personaggi esposti alle seduzioni televisive. I "mostri" di Ombre bianche vivono accanto a noi, negli stessi luoghi, in casa nostra: quei mostri siamo «noi stessi», come Flaiano scrive in una lettera a Fellini parlando del Satyricon. Non a caso il vero "mostro" di questi racconti è il "pubblico", appunto tutti noi, un singolare collettivo, anche nella variante della "folla", che «ormai adora e applaude soltanto se stessa». Sono tanti, nelle pagine di Ombre bianche, i mostri che vivono nel mondo della cultura, scrittori, giornalisti, filosofi. Figure di modesta, comune mostruosità, proiettate verso un "nuovo" inconsistente, simboli di vuoto. Ombre, appunto, che si muovono con la sicurezza dei sonnambuli.


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09/11/2012 08:08



L'undicesima piaga



Su una spiaggia della Corsica, un gruppo di mucche, libere, dorate come la sabbia, sono immobili in mezzo ai pochi turisti, ignare di essere finite all'inferno. Al termine del suo libro intitolato Bloody Cow, Helena Janeczek consegna questa visione, «la più prossima alla mia idea di paradiso», alla memoria di Clare Tomkins. Era l'ottobre del 1996 e «l'undicesima piaga biblica», come si legge nella presentazione, «si stava abbattendo sul nostro Egitto». Inspiegabilmente Clare comincia a dare segni di depressione. Le viene prescritta una cura, non si riprende. Al contrario, deperisce, impazzisce. Finché un giorno cade sulle gambe, la testa all'indietro, il corpo attraversato da un tremito. Muore. Uccisa dal morbo della Mucca Pazza. Era vegetariana dall'età di undici anni. Come aveva preso il morbo? Si era contagiata inalando la polvere dei mangimi che maneggiava nel negozio di animali dove lavorava? L'incubazione poteva essere lunghissima? È il delirio mediatico, il panico, la psicosi collettiva, l'interrogazione incessante sul mangiare, sul non mangiare, sul morire di mangiare. Helena Janeczek ne rievoca le vicende, fra altre storie, documenti, allucinazioni, «allegorie verticali e orizzontali aneddoti», in un racconto morale che si riverbera, ancora più forte, sul nostro presente.


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10/11/2012 08:13



Spaesati e in fuga



APierrot le fou, il corsivista di un giornale di provincia che abbiamo già incontrato, è capitato un giorno di scrivere un articolo intitolato Vagabondi nel tempo. La signora Elena di Roma, racconta, ha perso e ritrovato il marito sei volte. Sgusciava via e lo riacciuffava ogni volta sulle spiagge di Fregene, su una sedia sdraio con il giornale sulle ginocchia, o concentrato a giocare con paletta e secchiello. La signora Silvia di Milano, dopo avere rincorso per cinque anni il padre fuggiasco, recidivo, è crollata e si è rivolta all'analista. Succede all'improvviso. Tutti i giorni arrivano in questura telefonate di famiglie che hanno perso un parente. Fra gli evasi dalle mura domestiche sono numerosi i malati di Alzheimer. Perdono contatto con il presente, dimenticano il passato prossimo, la loro memoria trattiene solo le immagini di un passato lontano. Spaesati in un oggi irriconoscibile, se ne allontanano. Vagabondano nel tempo. Salvatore, di ottant'anni, ad esempio è stato ritrovato davanti al portone chiuso della casa dei genitori, morti da decenni. Nel mio studio, racconta Pierrot le fou, è appesa la fotografia di un vecchio che cammina di spalle nella bruma autunnale di un boulevard parigino. «La guardo spesso e sono preso da non so quale malinconia struggente. Lo vedo di spalle allontanarsi, e scomparire a lungo, senza più voltarsi».


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11/11/2012 11:09

NON SPINA, DONO



Non spina, dono



Un'amica, in un momento difficile, mi manda una pagina scritta. L'oggetto della mail dice: «il pensiero più bello sulla perdita». È davvero bello, e va condiviso. «Non c'è nulla che possa rimpiazzare l'assenza di una persona cara, né dobbiamo tentare di farlo; è un fatto che bisogna semplicemente portare con sé, e davanti al quale tener duro; a prima vista è molto impegnativo, mentre è anche una grande consolazione: perché, rimanendo aperto il vuoto, si resta, da una parte e dall'altra, legati a esso. Si sbaglia quando si dice che Dio riempie il vuoto: non lo riempie affatto, anzi lo mantiene aperto, e ci aiuta in questo modo a conservare l'autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre: quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il tormento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso. Bisogna guardarsi dal frugare nel passato, dal consegnarsi a esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari, e per il resto lo si possiede come un tesoro nascosto della cui esistenza si è sicuri: allora dal passato si irradiano una gioia e una forza durature». Questo pensiero è di Dietrich Bonhoeffer, dal suo libro Resistenza e resa.


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14/11/2012 11:43


Canto interiore


Terzina, un brano musicale per soprano e otto strumenti che il compositore Niccolò Castiglioni ci ha lasciato, è un canto-preghiera. Le parole sono del mistico tedesco, esponente del Pietismo, Gerhard Tersteegen (1697-1769): «Dio è un Dio del cuore. Se vuoi trovarlo… sprofonda il tuo capo nel segreto del petto - dolce, inerme come un bimbo. Così ne avrai rivelazione!». Castiglioni era quel bimbo. Racconta chi l'ha conosciuto che poteva commuoversi per la rugosità della buccia di un mandarino, e non era un esteta compiaciuto di sé, tanto meno un uomo insensibile alla tragedia dell'esistenza. Le parole di Tersteegen, nella lettura musicale di Castiglioni, non vengono perentoriamente affermate, come precetti: al contrario, vengono dette con semplicità, sillabate lentamente, addirittura sussurrate dalla voce di soprano, in un finale che scivola verso il silenzio. «Sottovoce: afono» indica la partitura. Il suo è un canto interiore: «una poetica musicale delle cose minime e delle infinite» ha scritto Mauro Bonifacio, compositore e direttore d'orchestra, nel programma di sala. «Natura, dimensione trascendente e cuore dell'uomo-bambino sono in grado di vibrare alla stessa frequenza, sono in comunicazione. La speranza di tutti noi è di saperla ancora ascoltare, quella frequenza».


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15/11/2012 11:14



Il rumore e il bene



Conservatorio di Milano, sala Puccini, in fondo al cortile antico. Nella rassegna che Milano Musica ha dedicato a Niccolò Castiglioni c'è un concerto-ritratto dal titolo, per me, attraente: «Tra gioco e spiritualità». Sul palcoscenico, arredato in un angolo da un armadio dipinto a fiori, incongruo e per questo concerto più che mai pertinente, si alternano i giovanissimi musicisti del Laboratorio di Musica Contemporanea, concentrati, appassionati. Eseguono, e ne sono consapevoli, le musiche inafferrabili di uno dei compositori più originali del Novecento, libero dalle nuove accademie come dal logoro dogmatismo: note liquide e ribattute, di una giocosità infantile, dove sgomento e allegria, splendore e sordo pulsare coesistono, a lamine sovrapposte, e per qualche istante illudono che l'interezza a cui aspiriamo sia possibile. Nei brani eseguiti, che hanno il nome di alcune lettere dell'alfabeto ebraico, Gymel, Daleth, Alef, He, tutto è nitido: l'essenzialità dei timbri, il mobile profilo melodico e la percussività pungente, la linea del tempo che avanza o, al contrario, si blocca in ripetitività ipnotiche. Ci si perde dentro questa musica, e ci si ritrova. La frase di Castiglioni, scelta per rappresentarlo nei concerti di Milano Musica, è da custodire e portare con sé: «Il rumore non fa bene e il bene non fa rumore».



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16/11/2012 10:52



Come occhi bambini



«Io? Inseguo un'immagine, nient'altro». Con questa frase, di Gérard de Nerval, Charles Simic (1938), uno dei maggiori poeti di lingua inglese, apre il suo Cacciatore di immagini, il libro con cui ha reso omaggio all'artista Joseph Cornell e alle celebri "scatole" dove assemblava oggetti raccolti negli angoli più disparati di New York, camminando solo, come l'uomo riservato e un po' discosto che era. In uno dei brevi e densi capitoli del libro Simic offre, a proposito delle immagini, qualche precisazione, persuaso che «la gente che cerca significati simbolici è incapace di coglierne la poesia e il mistero». Ci sono, scrive, tre tipi di immagini. Le prime sono quelle che vediamo a occhi aperti, alla maniera dei realisti. Poi ci sono le immagini che vediamo a occhi chiusi: «i poeti romantici, i surrealisti, gli espressionisti e i comuni sognatori le conoscono». Le immagini che Cornell ha messo nelle sue scatole sono però di un terzo genere. Partecipano sia della realtà sia del sogno e chi le guarda è tentato in due direzioni: ammirare l'eleganza della composizione e creare storie intorno a quanto vede. Ma l'occhio e la lingua, aggiunge Simic, non bastano: «solo mescolandosi danno vita alla terza immagine». Illuminante che abbia intitolato questo capitolo: «Lo sguardo che conoscevamo da bambini».


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17/11/2012 10:45



L'inaspettato



Il filosofo Arthur Schopenhauer (1788-1860) è sempre stato descritto come bizzarro, scontroso, misantropo, per nulla amico dei bambini. Ma i Ricordi di Schopenhauer privato, scritti da Lucia Franz e ora pubblicati in Italia, modificano lo stereotipo. A Francoforte, la città dove visse dal 1833, il filosofo cambiò spesso casa e nell'ultimo anno traslocò in un appartamento sulla riva del Meno, al numero 16 della via “Schöne Aussicht”. E lì diventò inaspettatamente amico di una piccola vicina, una bambina di sette anni. Nonostante i genitori le avessero imposto di evitare quel signore «che non aveva senso dell'umorismo», Lucia lo andava a trovare come si fa con un nonno. Non che lui non fosse irascibile, insopportabile a volte, e lei come tutti lo temeva quando rientrava a casa imprecando o di colpo, mentre lavorava alla scrivania, scaraventava i libri a terra. Lucia però aveva trovato una via per arrivare a lui, giocando con Atma, il cane che il filosofo amava. Il pensiero di Schopenhauer non viene certo scalfito da questi ricordi: la sua convinzione che «ogni vita è sofferenza», il fin troppo insistito “pessimismo” della sua filosofia. Ma è curioso come le visioni private, specialmente se gli occhi che guardano sono di bambini, introducano aspetti che sfuggono ai più, anche e soprattutto ai diretti interessati.


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19/11/2012 11:50



Forse se la ride



In un autoscatto ha un cappello dalla tesa rotonda, lo sguardo sorpreso, la Rolleiflex al collo sul vestito estivo a scacchi bianchi e neri. È Vivian Maier, nata a New York nel 1926, vissuta tra Francia e Stati Uniti prima di trasferirsi definitivamente in America. Della sua vita si sa pochissimo, solo che lavorò come bambinaia presso alcune famiglie di Chicago, dalle quali è ricordata come una Mary Poppins. Ignoti i suoi studi e sconosciute le migliaia di fotografie che fece nel corso della vita. Almeno fino al 2007, quando un ragazzo ventiseienne acquistò in una casa d'aste la scatola piena di negativi che lei aveva venduto per necessità. Pare che le piacesse raccogliere le fragole, mangiare il gelato al caffè e portare scarpe da uomo. Sembra che facesse anche il critico cinematografico. Il suo scopritore la descrive come «cattolica, socialista, femminista». Gli esperti ormai la annoverano tra i grandi «fotografi di strada». Riprendeva vetrine, volti di passanti, bambini, donne sole, scorci di città. Si nascondeva dietro un mestiere comune, appagata di se stessa e non in cerca di riconoscimenti dal mondo? Oppure, se fosse vissuta oggi, avrebbe consegnato le sue foto a una pagina di Facebook? Non sappiamo. Ma sotto il suo cappello dalla tesa rotonda non è detto che Vivian Maier, della sua fama postuma, non se la rida.


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20/11/2012 09:57



Immenso, assoluto



«È vero quello che dicono delle rose?», «Che cosa dicono?», «Che in primavera la valle si riempie di rose», «Io non ne ho mai viste, colonnello». Ballesio sospira. «Lo immaginavo. Certo. Perché le rose dovrebbero crescere in un posto tanto orribile?». La scena avviene in Afghanistan, nella base militare dove si svolge buona parte del romanzo di Paolo Giordano, Il corpo umano. Le rose appaiono un miraggio in quel luogo di deserto e di devastazione, eppure, evocandole, prendono vita, e non solo nella fantasia. Mi ricordano un gelsomino che ho visto nel deserto intorno a Gerico, e il ragazzino muto che mi ha guidato alla tomba, secondo gli islamici, di Mosé. Come viveva, in mezzo alla sabbia, quel gelsomino fiorito? E come faceva quel ragazzino a parlare con tanta intensità nel silenzio dei suoi gesti elementari? Con la mano mi ha chiesto di avvicinarmi alla pianta, ha strappato un rametto e me lo ha offerto, toccandosi il naso e poi aprendo le braccia. Il profumo del gelsomino ostinato si espandeva, immenso. Difficilmente lo dimenticherò. Ha qualcosa a che fare, credo, con il silenzio assoluto del romanzo di Paolo Giordano, quando i soldati, la notte, sdraiati sulle brande, riescono a sentire il battito del proprio cuore. L'attività incessante del corpo umano.


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21/11/2012 11:07




Dentro e fuori



Nel carcere di Bollate, di cui ricevo via mail la rivista, una cooperativa di volontari liberi e di detenuti si prende cura delle serre poste tra i reparti maschili e il reparto femminile. La frutta, la verdura e le piante lì coltivate, vengono vendute. Sono spesso varietà insolite, erbacee perenni, rose antiche, lavande particolari. Una di queste piante è la Leycesteria formosa, usata nell'Ottocento per i giardini vittoriani e poi dimenticata. In Italia era quasi sconosciuta. È un arbusto che proviene dal sud ovest della Cina ed è molto diffuso sull'Himalaya, tanto che il suo nome popolare è Caprifoglio dell'Himalaya. Viene chiamato anche Bacca del fagiano, perché in autunno, dopo la fioritura, produce delle bacche rosso scuro amate dagli uccelli. Non sono tossiche per l'uomo, ma molto amare. Per un anno, i detenuti giardinieri, che come gli altri incontrano famiglia, moglie o marito, fidanzata o fidanzato nello spazio e nel tempo, per nulla intimo, destinato ai colloqui, hanno trasformato la Leycesteria in pianta "amorosa": sollecitati da quell'aggettivo così pieno di promesse, "formosa", che in latino vuole dire semplicemente bella, di forma gradevole. Appendevano ai vasi dei cartellini speciali, non con il nome botanico, ma con un desiderio. Per un anno, prima che qualcuno se ne accorgesse, gli acquirenti, ignari, hanno portato quel desiderio fuori dalle mura, nel mondo.


Laura Bosio



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22/11/2012 10:19



Il senso del saluto



Philippe Petit, funambolo, ha attraversato su un filo la distanza tra le guglie di Notre-Dame a Parigi, tra le Torri gemelle del World Trade Center a New York (oggi ridotte a fasci di luce nel vuoto), tra picchi alpini e sponde di cascate. Nel Trattato di funambolismo, dove racconta la sua arte «sottile ed effimera come l'arte del vivere», riserva un capitolo al Saluto. Il saluto del torero, dice, è una dedica. Quello dell'aeronauta, un addio. Il saluto del funambolo è una dichiarazione. C'è il saluto in piedi, in ginocchio e seduto. Il saluto in ginocchio è quello vero e perfetto. «Una parte del peso del corpo deve riposare sul collo del piede e la pianta del piede deve trovarsi totalmente a contatto con il cavo, e non solo la punta, incurvata, come si osserva spesso, posizione sgraziata a vedersi». Il saluto si fa all'ingresso sul filo, ma anche a conclusione dello spettacolo. «Ditemi: dove trovare maestà più grave di quando il funambolo, con un inchino ammirevole, si congeda dal filo?». Ogni volta che mette piede sul cavo, Petit, salutando, è come se gettasse il suo pugno in faccia ai venti. «Ma al culmine del gesto il pugno si apre, la mano raccoglie la risposta, il funambolo la legge in ginocchio». E la vita, stretta in un pugno e poi offerta, si trasmette, a chi lo guarda a naso in su, nella sua esilarante immediatezza.


Laura Bosio



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23/11/2012 11:11




Eroico filo



New York, agosto 1974. La città si ferma, come incantata, e guarda in alto: un uomo sta attraversando il vuoto tra le Torri gemelle, in equilibrio su un cavo d'acciaio, a centodieci piani d'altezza. Sull'eroica passeggiata tra le nuvole di Philippe Petit, Colum McCann ha costruito un romanzo dove l'impresa funambolica diventa il ritratto di un'America in bilico fra sogno e tragedia, tra illusione di potere e presentimento della caduta. Ogni personaggio, coralmente intrecciato con gli altri, deve affrontare la perdita di un baricentro emotivo: la prostituta che vive nelle turbolenze del Bronx, o la pittrice che cerca una stabilità sentimentale, o la donna che nella sua casa di un quartiere residenziale oscilla davanti a un grande dolore. «Tutte le vite che potremmo vivere, tutte le persone che non conosceremo mai, o che non saremo, sono ovunque. È questo il mondo». Sono le parole d'apertura, quelle che portano i lettori dentro il libro. E immediatamente ci si ritrova a camminare nel labirinto, con stupore, con sorriso, con spavento. A osservare la fragile bellezza della vita, sospesa sul filo come quell'equilibrista che si muove lassù in alto, audace e maestoso, lontano eppure vicinissimo. «Evoca un'estasi che sonnecchia nel profondo di ciascuno» ha scritto Werner Herzog, «uno stato interiore magnifico, come una luce».


Laura Bosio




_________Aurora Ageno___________
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24/11/2012 12:01



L'ultima parola



In una stazione deserta del lontano ovest tre pistoleri aspettano. Sta per arrivare un treno, ne scenderà l'uomo che sono stati incaricati di uccidere. Uno dei tre è seduto su una panca di legno. Gli ronza intorno una mosca. Si posa sulla sua barba, la scaccia con la mano, cammina sulle sue labbra, soffia per farla volare via. Finalmente si ferma sullo schienale della panca. Il killer estrae la pistola dalla fondina e, con gesto fulmineo, la centra con la canna che subito ostruisce con un dito. Poi la avvicina all'orecchio e ascolta il ronzio della mosca prigioniera. Si sente lo sferragliare del treno. Il pistolero libera la mosca e si alza. In C'era una volta il west di Sergio Leone, dove gli uomini moriranno come mosche, la mosca si salva. «Non ho mai fatto male a una mosca» mi dice l'amico che ha rievocato questa scena, mentre aspettiamo sotto la pensilina che arrivi l'autobus. «Ma avrei voluto catturarle come quel pistolero. Non ci sono mai riuscito». Neanch'io, lo confesso, e con un senso di frustrazione postuma. Le mosche però, mi fa notare lui mentre timbriamo il biglietto, non si sono salvate solo dal pistolero e dalle nostre inette mani moschicide. Da qualche tempo, nel dizionario della lingua italiana, costringendo zuzzurellone a retrocedere al penultimo posto, hanno conquistato addirittura, insieme alle zanzare e ad altri insetti, l'ultima parola: zzzzz.


Laura Bosio



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26/11/2012 10:37




Coincidenza


È domenica mattina, c'è vento, molto. Il traffico in strada è scarso e in casa mi arriva dal viale il fruscio delle foglie spazzate, il suono di una bottiglia che rotola. Scosto la tenda e guardo fuori dalla finestra. Lo faccio abbastanza spesso durante la giornata, ma oggi mi ha spinto qualcosa che non so spiegare, e che non è solo il vento. Lo capisco vedendo altre facce alle finestre dei palazzi di fronte. All'incrocio, anche se non si sono sentiti schianti né sirene, si è accalcato un gruppo di persone, altri si stanno aggiungendo, le mamme che sono accorse dalle panchine attorno allo scivolo adesso coprono gli occhi dei figli con la mano. Da una delle finestre alte, sulla destra, una ragazza urla a quelli che passano sul marciapiede, «con la stessa andatura composta e tranquilla di chi usciva per la passeggiata domenicale in qualche altro secolo, meno violento del nostro». C'è una scena analoga in una poesia di Simic, intitolata Allarme, che ho letto pochi giorni fa. Mi colpisce la coincidenza con quei versi, dove chi come me guarda, e si angoscia, senza poter darsi conto, convive con quelli che a pochi metri camminano indifferenti. Ma il nostro stato di allarme è casuale e intermittente, forse anche per questo proviamo a fissare i sentimenti, i fatti, il tempo in un racconto, in un disegno, consapevoli che «tutto è verità e passaggio».


Laura Bosio



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27/11/2012 10:28



L'eco di un sogno



Un'amica mi racconta un sogno, un incubo classico, però con un finale imprevisto, e da trattenere. È aggrappata alla parete di un burrone. Intorno è buio, la roccia è scivolosa e le dita non sono più in grado di reggere il peso del corpo. Inesorabilmente si aprono, stanno per cedere, come la sua volontà. In quel momento, sotto di lei, a molti metri di distanza, arriva un'auto. Si arresta, la portiera si apre e la persona alla guida scende. Lei riconosce sua sorella, donna energica e protettiva, leggera e profonda, mancata troppo presto. La sorella tende un braccio e la stacca dalla parete come un cartone animato, mentre le dice: «Ma cosa fai lì!». Di colpo, la parete a cui lei era aggrappata si rivela inconsistente, immateriale, nient'altro che un grumo di timori diventato pietra, montagna. Anche la distanza abissale appare un'allucinazione. In basso, a pochi centimetri, c'è una strada, alla luce del giorno, basta mettere i piedi a terra e seguirla rimettendosi a camminare, come sta facendo la sorella nel suo nuovo viaggio. Ci saranno altri pericoli, altri precipizi? Di certo sì. Eppure, l'eco di quel «ma cosa fai lì!» le impedirà, forse per sempre, di trasformarli in un assurdo ultimo appiglio. Sua sorella non l'ha soltanto salvata, le ha mostrato che morire può essere facile. Vivere è di gran lunga più difficile.


Laura Bosio



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30/11/2012 14:36



L'autentica meta



«"Occorre sempre essere di ritorno". "Anche senza essere andati da nessuna parte?" "È proprio lì il bello, amico mio"». In poche battute di dialogo, Antonio Machado ci ricorda che il viaggio, prima che uno spostamento, è una necessità. Non importa che si tratti di esplorazioni planetarie o spaziali, o di avventure interiori, o di fantasie nate a tavolino e sognate come vere. Viaggiare è un impulso, tornare all'autentica meta, e raccontare l'approdo naturale. Non è pensabile un viaggio senza parole, senza l'«oceano dipinto» evocato da Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio: «Cadde la brezza, caddero le vele. / Un giorno e un altro, un giorno dopo l'altro. / Senza un alito, una scossa; / Fermi come una nave dipinta / Sopra un oceano dipinto». Un oceano in cui navigano tutti i viaggi e tutti i ritorni che si sono succeduti e mescolati. Quello di Flaubert nell'Educazione sentimentale: «Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto una tenda, l'incanto dei paesaggi e delle rovine». O di Kerouac sulla sua Strada: «Urrà! Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare». Avendo in mente la domanda di Melville nel Moby Dick: «Dov'è quel porto finale da cui non salperemo più?».


Laura Bosio



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Quella svagatezza


Ripenso ai camminatori, ai cercatori solitari, e riprendendo in mano i libri di Robert Walser: amato da alcuni suoi contemporanei, come Kafka, Musil e Benjamin, quindi quasi sconosciuto per decenni, poi scoperto e subito rientrato in una luminosa ombra. Il nostro tempo corre, travolge, e la memoria non riesce a tener testa. Nemmeno le urla riescono più a farsi ascoltare (soprattutto quelle), e invece le pagine di Walser, ogni volta che le avviciniamo, svettano su qualsiasi rumore di fondo. «Se scrittori come Walser appartenessero agli "spiriti guida"» ha scritto Hermann Hesse, «non ci sarebbe più guerra. Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore». Oggi di suoi lettori ne esiste un buon numero, ma la voce di Walser, che somiglia tanto al suo passo elastico, con la svagatezza di chi ha compreso troppo e vuole celare quello che conosce, dovrebbe essere più ascoltata. Intanto accogliamo questo suo augurio, dalla Lettera di un pittore a un amico poeta: «Lascia che ti abbracci e stammi bene… abbiamo bisogno di pazienza, coraggio, forza, tenacia. Ti mando una ventina o trentina di auguri di buona salute, non soffrire di mal di denti, tieniti sempre provvisto di un po' di soldi e scrivimi una lettera tanto lunga che mi ci voglia tutta una notte per leggerla».


Laura Bosio



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