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"IN VIAGGIO" - riflessioni quotidiane di Marina Corradi

Ultimo Aggiornamento: 01/04/2013 12:05
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20/02/2013 10:30



DOV'ERA DIO



Longarone, autunno 2003 – Quarant'anni dopo, chi quella notte c'era non vuole più ricordare. I vecchi, quando dalla strada vedono la diga ancora voltano la testa. L'onda del Vajont si prese tutto, il 9 ottobre 1963. Un paese cancellato, più 1.900 morti.
«La prima cosa che sentii – racconta un superstite – fu come un vento di temporale che sbatteva le persiane. Mi affacciai, era una notte serena. Poi, guardando verso la valle vidi dei lampi. Erano i fili della corrente che saltavano, travolti dall'onda. Ho urlato: «“La diga!” e sono fuggito verso la montagna».
L'onda si prese i padri, e i bambini addormentati. Molti non furono mai ritrovati. Ritornò invece la Madonna della chiesa madre, che l'acqua aveva trascinato nel Piave. Nella chiesa nuova le donne anziane la vanno a trovare; le restano davanti, silenziose. Quarant'anni dopo avverti ancora, oltre al dolore, lo scandalo: Dio, quella notte, dov'era?
La diga è lassù, intatta. Dal basso sembra una nemica appollaiata sulla valle. Salgo, per vederla da vicino. Una mole opaca di cemento armato; e nessuno quassù, solo il vento. Penso alla donna che quella notte, m'han detto, si aggirava fra le macerie, gridando impazzita: «La diga! La diga!» E alla domanda muta nelle facce dei vecchi, quarant'anni dopo, ancora: Dio, quella notte, dov'era.


Marina Corradi



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21/02/2013 11:00


VENTI RIGHE SUI GIORNALI



Milano, gennaio 2004 — Stazione di Calalzo, nel Bellunese. Alle 13.04 di un mattino feriale un piccolo treno, due motrici e tre vagoni, nessuno a bordo, forse per un guasto ai freni si muove da solo, e comincia a scendere a valle. Il capostazione atterrito dà immediatamente l'allarme, ma il treno è già lontano, sui binari in pendenza. Un'automotrice parte, in un disperato inseguimento. Il treno accelera: 80, 100, 120 km l'ora, le ruote mandano scintille, ormai è un bolide inferocito, incontrollabile.
Con disperata urgenza tutte le sbarre dei passaggi a livello vengono calate, mentre il treno sferraglia verso valle, cieca furia di acciaio. Che cosa può fermare un treno impazzito? A Ponte nelle Alpi viene bloccato un convoglio sul punto di risalire in direzione opposta. A bordo, probabilmente, a quell'ora, ragazzi appena usciti da scuola. (Chissà le voci, le telefonate fra i capistazione, quel mattino, e i cuori a mille; chissà le preghiere). Il treno folle arriva a Castellavazzo, verso Longarone. Improvvisamente, rallenta. Quasi di malavoglia, con un lungo cigolio di acciai roventi, alle 13.25 si ferma. Una leggera salita lo ha bloccato.
Ventuno interminabili minuti. I ferrovieri sulla linea si abbracciano, qualcuno ringrazia Dio. Non è successo: venti righe, l'indomani, sui giornali.


Marina Corradi



_________Aurora Ageno___________
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22/02/2013 11:10



Testimone oculare


Milano, 2004 - La "Cattura di Cristo" è un Caravaggio riconosciuto come tale dalla critica da pochi anni, e che per secoli se ne era rimasto, ignorato, in Irlanda. In questo gennaio 2004 è a Milano. Me lo trovo davanti al Museo diocesano. Mi sbalordisce la potenza del male che vi è evocata. Dentro a una luce diaccia, luce da strada sinistra nella notte, pallidissimo è Cristo, nell'abbraccio di Giuda. Adunca la mano del traditore, che svela la verità della consegna ai carnefici. In quel buio infinito il giovane Giovanni fugge, la bocca spalancata in un grido muto. Le facce dei soldati romani sono nascoste dagli elmi: non ha un volto la violenza del potere, e chi uccide dirà sempre: abbiamo solo obbedito a un ordine.
Ma è il braccio nell'armatura, che sconvolge: nero, lucente, feroce come la chele di un insetto predatore, braccio meccanico quasi, obbediente, indifferente esecutore di una sentenza di morte.
Sono rimasta a lungo, davanti a questo Caravaggio strappato alle tenebre. Quel braccio di morte se ne stava nascosto, sepolto in un convento irlandese, nel secolo dell'Olocausto; ma portava già tutto in sé, come una profezia. È come se Caravaggio fosse stato davvero nell'orto degli ulivi, quella notte. E, testimone oculare, ce ne dicesse ancora il tradimento, e l'infinito dolore.


Marina Corradi



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23/02/2013 16:08



PREGHIERA DALL'INFERNO


Indonesia, gennaio 2005 – Mentre l'aereo si abbassa su Banda Aceh guardo dal finestrino: palme, e campi lussureggianti all'infinito. L'Eden. Ma a terra un taxi infangato mi porta verso la costa annientata dallo tsunami. Di colpo i campi dell'Eden sono ingoiati da una melma nera, da cui sbucano assurdamente musi d'auto contorte, e camion stritolati come da una morsa d'acciaio. Il paradiso si è fatto inferno.
In città molte zone sono ancora sommerse; nei campi allagati galleggiano ancora, gonfi, dei cadaveri. Vedo uomini seduti sulle soglie, immobili, lo sguardo nel vuoto: come non avesse più senso far niente, nel trionfo della morte. Dei bambini con un carretto entrano nei cortili abbandonati, portano via due stoviglie, un ombrello, un triciclo rotto. Tutto, dentro quel fango, è come trasfigurato.
La notte cala nerissima nelle strade senza elettricità. Dalla finestra della missione dove dormo entra, dolciastro, l'odore della morte, e il latrare rabbioso di branchi di cani inselvatichiti non lascia prendere sonno. Quando prima dell'alba riparto, c'è una candela accesa in cucina: attorno al tavolo un vecchio missionario italiano, tre suore e un giovane camilliano americano recitano le Lodi. E che si possa lodare Dio qui, è, nell'inferno di Banda Aceh, ciò che più mi ammutolisce.


Marina Corradi


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25/02/2013 10:48



GLI OCCHI DEI PESCATORI


Thailandia, gennaio 2005 – La spiaggia di Patong oggi, venticinque giorni dopo lo tsunami, sembra un sogno: la sabbia candida abbaglia, l'oceano è splendido e limpido e calmo. Ma, per chilometri, nessuno.
Già la spiaggia è stata ripulita e lisciata. E però, di quelli che hanno visto l'onda, più nessuno ha il coraggio di tuffarsi in quest'acqua che stamattina appare così mansueta, così innocente.
A nord, lo tsunami ha distrutto i villaggi dei Morken, antica etnia che da sempre vive del mare. Fuori dalle baracche nuove stanno seduti i vecchi pescatori; immobili, fissano la linea blu dell'oceano, lontano. Sulle facce bruciate dal sole, lo sbalordimento: come avessero appreso che una madre amatissima non era, in verità, la loro madre. Come ha potuto, l'oceano, amico, compagno, pane, tradire?
I bambini hanno disegnato l'onda: è altissima e nera, come la mano oscura di un gigante. Ma già i più piccoli vorrebbero tornare alla spiaggia, irresistibilmente attratti dalla linea blu all'orizzonte. Le madri scuotono la testa. Poi, cederanno. Solo i vecchi un giorno ricorderanno, ma li si ascolterà a fatica. I bambini nemmeno sapranno più, tanti anni fa, cos'è stato. Giocheranno di nuovo fra le onde, nella spinta scritta nell'anima degli uomini: che ogni volta ricominciano a sperare.


Marina Corradi



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26/02/2013 11:41



SU QUESTA TERRA SCABRA



Israele, Galilea, 2005— Quando l'editto di Cesare Augusto ordinò il censimento e Giuseppe partì per Betlemme con Maria incinta, che strada percorsero? Per la Via Maris si pagava un pedaggio. Le alture della Samaria erano faticose per una donna gravida. Forse passarono per questa più piana valle del Giordano?
Mi piace pensarlo, mentre con Bernardo, 10 anni, viaggiamo anche noi, pellegrini, da Nazaret verso Sud. In Terrasanta, quindici anni dopo, sono tornata con uno dei miei figli. Lasciata alle spalle la pianura di Esdrelon, «terra di latte e di miele», già ingrigisce la terra, sotto la luce bianca del deserto di Giuda. (Non si stringeva il cuore a quei due, non sembrava un esilio? E, nel ventre di lei, il bambino già scalciava).
Verso il mar Morto, vapori densi offuscano l'orizzonte. Quanto manca a Gerusalemme? chiede mio figlio, inquieto. Chissà se non se lo chiesero anche quei due, stanchi del cammino. Eccole, le Mura della Città Santa. Ma noi andiamo oltre. A Beit Shaur ci sono ancora i pastori a dorso d'asino. Su questa terra nuda, scabra, pensa, Bernardo: la luce nella notte, e i guardiani delle greggi che accorrevano, meravigliati, ansiosi. Mio figlio tace e guarda, assorto, il gran cielo su Betlemme di Giuda. Dove lo straordinario appare possibile, e l'infinito vicino.


Marina Corradi



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27/02/2013 10:50



CON GLI OCCHI DI UN BAMBINO


Betlemme, 2005 - Il Muro compare all'improvviso, incombente nei suoi nove metri di altezza. Il check-point sembra un fortino, con le porte a saracinesca e le torrette e i cavalli di frisia. I soldati israeliani sono giovanissimi, le armi in pugno. Uno controlla il telaio dell'auto, un altro apre i bagagli. Mio figlio Bernardo, dieci anni, con me in viaggio in Terrasanta, fissa i fucili, a poche decine di centimetri, con un profondo stupore. È la prima volta che vede degli uomini con le armi in pugno, davanti a lui, così vicini. Gli leggo lo sbalordimento in faccia.
Nella Basilica mi tira per la mano, impaziente. Giù per le scale, verso la Grotta. Fino alla nicchia dove una stella a 14 punte segna l'alfa, l'inizio, l'epicentro dove andarono convergendo i pastori, quella notte. E un bambino, duemila anni dopo, istintivamente fa ciò che forse fecero quegli uomini. Prima, guarda. Poi allunga la mano, a toccare. Gli uomini, hanno bisogno di toccare. Chissà quante mani, quella notte, si allungarono incerte, esitanti, verso un Dio bambino.
Quando, tre giorni dopo, torniamo in Italia, la valigia del figlio è terribilmente pesante. Ma cosa ci hai messo dentro? domando. Sassi, scopro: manciate di sassi del lago di Tiberiade. Mio figlio: «Sai, magari ci ha camminato sopra Lui».


Marina Corradi



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28/02/2013 11:27


Una leggera asimmetria


Ostuni, febbraio 2005 - I vicoli della città vecchia sono deserti, e all'orizzonte il mare è color piombo. Nevica, sulla candida Ostuni. Nella piazza vuota e silenziosa mi si para davanti come un miracolo la facciata in gotico fiorito della cattedrale. È stato il sole, in secoli di torride estati, a dare questa tenue sfumatura rosa alle pietre? Che stamattina nelle folate di neve rilucono come un tesoro.
L'anziano professore che mi accompagna è di qui, e della chiesa conosce i segreti: illustra, racconta, come un padrone di casa orgoglioso di un'avita dimora.
Infine, in fondo, si ferma, col dito indica l'abside: guardi bene, dice. E solo allora noto una leggera asimmetria. L'abside è quasi impercettibilmente inclinata a sinistra. Probabilmente, spiega il professore, l'asimmetria fu voluta: la sommità è inclinata come il capo di Cristo, sulla croce.
La «reclinatio capitis» è inscritta nella cattedrale, consacrata nel 1490, per sempre. Cifra nascosta, profonda memoria del Venerdì Santo. Quei costruttori erano tanto certi che la Chiesa fosse corpo di Cristo, che edificando un tempio ne inclinavano l'abside - come Cristo il capo, quando muore. Fede che plasma le pietre, e ne diventa il respiro. Nelle folate di neve, bianca come una sposa, Ostuni custodisce il suo segreto tesoro.


Marina Corradi



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01/03/2013 09:36



ORFANI A SAN PIETRO


Piazza San Pietro, 2 aprile 2005 - «Lassù, la seconda da destra, all'ultimo piano. Quella con le tende chiuse». All'ora della chiusura degli uffici i romani, a rivoli, poi come un fiume, convergono verso il Colonnato. Si indicano l'un l'altro la finestra dietro la quale Giovanni Paolo II sta morendo. Nella sera di primavera prende forza la voce corale del Rosario, mentre i ragazzi sotto a quella finestra intonano ancora: «Gio-van-ni-Pao-lo! Gio-van-ni Pao-lo!» - come quando da bambini si chiama dalla strada un compagno, perché scenda a giocare. Poi, l'annuncio colpisce la piazza come un pugno.
Suonano a morto le campane. Sulle facce dei più giovani, ora, l'impronta di uno schiaffo bruciante. Molti a tarda notte s'addormentano sfiniti nei sacchi a pelo, sotto alle colonne, come non volendo lasciare il capezzale di un padre. Intanto arrivano i primi polacchi, e i ragazzi del Sud, studenti, baristi che a sera hanno calato la saracinesca e, stretti in cinque su un'utilitaria, sono corsi qui.
All'alba, infreddoliti, hanno facce da orfani. Solo col buio della notte hanno capito davvero. «E adesso?» si domandano, smarriti. Il sole inonda il Colonnato, e Roma, dolente, torna a vivere. Ma per questi ragazzi è il primo urto della morte. E sembrano bambini, e verrebbe da abbracciarli.


Marina Corradi



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04/03/2013 04:39



A UN'ORA DA MILANO


Sul Po, verso Cremona, 2005 – Il sole di giugno a mezzogiorno stordisce. L'acqua, cheta e verdognola, scorre adagio. «Una secca senza precedenti», annunciano i tg. Il signor Annibale Volpi, ex guardiano della chiusa di Isola Serafini, borbotta nel suo accento padano: «Ma va' là, una secca come tante altre».
Con una piccola barca, sul fiume. Dentro le lanche dove fiori mai visti sporgono le corolle sgargianti dai canneti, e strane voci di uccelli invocano – roche, o stridenti – una compagna. Perché è l'ora, è il momento: nel solstizio d'estate ogni creatura anela a riprodursi. Spento il motore, nel silenzio assoluto, le carpe in estro balzano fuori dall'acqua, in uno scintillio di squame. In alto, fra i nidi, l'andirivieni fervido delle madri che portano cibo ai piccoli. A un'ora da Milano, che miracolo: la natura, possente, nella gran luce del solstizio chiede di vivere ancora.
Una cascina lungo il fiume. C'è nessuno? Si affaccia una vecchia, gentile. Mostra una Madonna sull'argine, messa in un anno lontano, quando la piena si fermò, per grazia ricevuta. Il Po come un fratello generoso, gonfio di forza, che talvolta erompe; poi, domato, torna a dare alla terra la sua vita.
A un'ora da Milano, che stupore: un mondo antico vive, sapiente, lento. E scorre il tempo, senza far rumore.


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05/03/2013 07:09




UNA INTERVISTA SILENZIOSA


Verona, ottobre 2005 – Sul comodino il caffelatte è intatto. Accanto, un vecchio orologio da polso e un Rosario: tutto quello che un missionario ha riportato a casa, dopo 57 anni in Africa. Nella casa madre dei comboniani a Verona padre Francesco Rinaldi Ceroni, 81 anni, è tornato a morire. Ma ha scritto una lettera al giornale, e sono venuta a cercarlo. Non ne ha per molto: il volto livido, prosciugato, non lascia dubbi. Eppure, come nel dovere di un'ultima testimonianza, racconta. Di quella volta nella savana che, aggredito dai briganti, li sfidò: «Ammazzatemi pure, nel mio Dio io ho vissuto più di tutti voi». E la soldataglia, sbalordita, lo lasciò andare.
La coscienza viene e va, il malato si assopisce. Mi guardo attorno, nella candida nudità della stanza. Il crocefisso sul muro. La goccia della flebo scandisce il tempo come un orologio. Lui si risveglia: «Io posso testimoniare – dice, la voce affannata – che quando si porta Cristo gli uomini cambiano, e cominciano a operare». Di nuovo, dorme. Strana intervista: fatta di silenzi, più che parole. Lo guardo: mi pare di averlo già visto, ma dove? Quel viso terreo, consumato dal dolore. Capisco: sembra un Cristo di El Greco. Mi congeda, infine: «Che Dio la benedica». Quella benedizione addosso: come una mano che, generosa, perdona.


Marina Corradi



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06/03/2013 11:01



IL RESPIRO DI DIO


Gulu, Uganda, 2006 - Al Lacor Hospital nel 2000 scoppiò la terribile epidemia di virus Ebola che fece strage di pazienti e medici. Oggi, sei anni dopo, il Lacor è un ospedale ordinato e pulito. Nei letti lenzuola candide e ravviate. I malati ci seguono, muti, con lo sguardo. Hanno l'Aids, o la malaria, o infezioni contratte nei campi profughi qui attorno, dove il popolo Acholi, tormentato da anni dai ribelli del Lord Resistance Army, consuma una vita miserabile.
Le facce nerissime dei pazienti sul candore dei cuscini però sembrano serene. Al passare delle infermiere mi meraviglia che nessuno le ferma, nessuno chiede niente. Come se questi uomini fossero già increduli e grati di un letto pulito, del cibo, dell'acqua. Il silenzio di questo posto mette soggezione. Sembra un silenzio sacro.
In una culla c'è un neonato piccolissimo. Dorme: il respiro irregolare e affannato gli fa sussultare bruscamente il petto. Quale male ha già ereditato, nel sangue? È così inerme, sembra un passero nel nido. Vorrei prenderlo in braccio, ma non si può. Resto a guardarlo a lungo, avvinta, ma solo andandomene lo riconosco: è l'Agnello, è l'innocente il cui dolore accompagna ancora la Croce di Cristo. Si esce zitti, domati, dal Lacor. Una culla nel fondo dell'Africa - e il respiro di Dio, così vicino.


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07/03/2013 08:04



Preghiera da un assedio



Gulu, Uganda, 2006 - Dell'Africa equatoriale sbalordisce quanto la notte cali rapidissima: come un brigante che piombi alle spalle, e ti sia addosso. In questo precipitare di tenebre, nella foresta attorno alla missione dei comboniani a Laybi i sentieri si affollano di passi: uno scalpiccio sempre più intenso di zoccoli e piedi nudi. Sono i night commuters, i pendolari della notte. Minacciata dai guerriglieri del Lord Resistance Army che rapinano, bruciano, rapiscono i figli, la gente dei villaggi a notte mendica protezione nel cortile della chiesa; che è piccolo, ma almeno ha un muro attorno. E, forse illusoriamente, questo popolo qui si sente meno indifeso.
Ma quando la notte è del tutto nera, e stelle grandi il doppio delle nostre si accendono come fari nel cielo, i night commuters cominciano a pregare in lingua acholi. Non distinguo le parole, ma la cadenza sì: è il Rosario. La catena della preghiera è retta dal filo di una tensione radicale; è la domanda fissa negli occhi nerissimi delle madri, i bambini al seno. Salvaci, Padre, salva i nostri figli, ripetono quegli occhi scuri, mentre i bambini più grandi si rincorrono e strillano. Erano uguali le notti, nelle rocche assediate del Medioevo? Non avevo mai sentito pregare come da queste madri, inermi nella notte africana.


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08/03/2013 11:37



«ERA BELLA, KABUL»



Kabul, aprile 2006 – Camp Invicta era una caserma sovietica. Si vede: blocchi di cemento nudo, sgraziati, già sbrecciati dal gelo dell'inverno afghano. Nella mensa invece è Italia profonda, nell'odore di sugo, nelle canzoni di Ligabue, nel Crocefisso sul muro, con il suo ramo d'ulivo. Alpini del Nord Est e ragazzi del Sud, sono i nostri. Bella gente, di poche parole.
Quando si esce in perlustrazione con gli autoblindo sulla Jalalabad road ci si trova in una coda infinita di enormi Tir infangati, colorati come giostre, in arrivo dal Pakistan, e miserabili carretti tirati da somari. Bambini stretti al burka blu delle madri, e polvere: una finissima polvere di deserto, che brucia la gola.
Sobbalzando su buche come crateri si entra in città. Chi avrà distrutto queste case, i russi o i mujahidin o Enduring Freedom? Poco importa. 25 anni di guerra. Metà degli afghani non sa cos'è, la pace.
Amin Zai, l'interprete, prima dell'arrivo dei sovietici era un insegnante. Fuggì in Italia con la famiglia; tornò, quando credette il Paese liberato. Ma vennero i mujahidin, e poi le bombe americane. S'infiamma di speranza, il professore, quando parla della nuova Costituzione. Poi, guardando la città devastata dice piano: «Era bella, Kabul, sapete». Come una preghiera, in memoria di una sposa perduta.


Marina Corradi


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09/03/2013 08:26


NEL DESERTO DEI TARTARI


Herat, Afghanistan, aprile 2006 - Attorno alla caserma di Camp Vianini la città stasera è tranquilla. Nel cortile, strani, i peschi in fiore tra i blindati. Noi giornalisti in visita alle forze italiane ci raduniamo attorno all'ufficiale che ci ha scortato per l'Afghanistan, uomo silenziosissimo. Ma questa è l'ultima sera per noi a Herat, e il capitano Cavallaro si lascia andare. Storico per passione, ha scritto un libro sulla battaglia di Montecassino, e ancora adesso va a cercarne gli ultimi superstiti, per farsi raccontare. Nella notte che avanza, tiepida, il capitano rievoca quella lontana aspra battaglia, come ci fosse stato. E noi a ascoltare, affascinati, avvinti.
Da un muro di cinta il bagliore giallo degli occhi di un dingo in cerca di cibo insinua una nota di inquietudine: forse questo è un deserto dei tartari? Dove si può solo aspettare. Poi, a notte fonda, lontano, un boato. Come qualcosa che bolla, sotto a una fragile pace.
L'indomani torniamo in Italia. Tre giorni dopo l'Ansa riferisce di un attentato kamikaze a Camp Vianini. I due soldati afghani di guardia al portone sono morti: quelli che al mattino ci dicevano «ciao», in italiano. I tartari, infine sono arrivati. O forse già vegliavano attorno alla caserma? Come quel dingo dagli occhi gialli, silenzioso, appostato.


Marina Corradi



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11/03/2013 11:13



Uno sterminato orizzonte



Albacete, Spagna, luglio 2006 - Da qui a Toledo la Mancha si allarga sull'altopiano della Meseta. Una distesa all'apparenza infinita di terra piatta, bruciata, all'orizzonte lontane colline rosse. La strada è dritta e deserta, il sole è proprio sopra di noi, e attorno solo l'estate, torrida. Dai sedili posteriori tacciono i ragazzi, affascinati e inquieti. Questo deserto ci incute soggezione. Vai, vai, e nessuno. Rare fattorie candide, isolate. (Com'era, un tempo, vivere qui tutta la vita?). Qualche vecchio mulino a vento, le pale ferme nell'aria bruciante.
Finalmente un villaggio: quattro case, una chiesa, un bar vuoto. Perfino le mosche dormono sui vetri, a quest'ora.
E poi di nuovo la strada per Toledo è una retta che si perde all' orizzonte. Un grifo vola adagio in tondo, cercando una preda. Un gregge pascola sotto lo sguardo di un vecchio immobile. Nel cielo di zaffiro non c'è la minima traccia di nuvola. Che cosa è splendido, e nello stesso tempo spaventa nella Mancha riarsa?
Qui non ci sono fiori di cui meravigliarsi, né foreste in cui perdersi, né città in cui incontrarsi, o mercati dove scambiare ricchezze. Qui non c'è niente. C'è solo il proprio respiro, e uno sterminato orizzonte. Nella Mancha è evidente, che vivere è un'attesa. E si tace dunque, come davanti a ciò che è sacro.


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12/03/2013 09:43




IL POSTINO E LE AQUILE


Penne (Pescara) 2007 – Dodicimila abitanti sotto la mole del Gran Sasso. Ogni dieci passi, una chiesa: sotto il Regno delle Due Sicilie, la città era sede vescovile. Gliene rimane questa gravità austera, e la chiesa madre maestosa, sull'orizzonte delle colline.
Cos'è successo a Penne? Niente. Sono qui a cercare un'Italia di provincia, quieta, senza alcun dramma, o scandalo. Un'Italia in pace, invisibile sui giornali. Nel bar della piazza gli avventori giocano a carte, i bicchieri colmi di trebbiano d'oro. Per i vicoli, a mezzogiorno, profumo di sugo, clangori di padelle sul fuoco. Nei giardini rose che si sporgono tra le sbarre, curiose. Occhi verdi di gatti che ti fissano. Biciclette appoggiate ai muri, senza lucchetto. Dai balconi pendono già asciutte, rigide, le lenzuola stese, e tu ne sai, da lontano, il profumo.
Seguo il signor Orazio, il postino, nel suo giro. Per una sola lettera raggiunge cascine solitarie, dove latrano i cani alla catena. Più tortuose le strade, man mano che ci si avvicina al Gran Sasso. A una curva Orazio si ferma, indica uno strapiombo nel vuoto: «Per di qui, vede, certe mattine ho visto i piccoli delle aquile spiccare il primo volo».
Un postino innamorato delle aquile. Anche questa è Italia, silenziosa. Invisibile sui giornali, eppure grande, e vera.



Marina Corradi



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UN POZZO D'ACQUA VIVA



Milano, 2007 – «Da ragazza, se mi piaceva un fiore, avrei voluto addirittura mangiarlo». In una stanza d'ospedale mi imbatto nel Diario e nelle Lettere di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz. Sorrido: anch' io, da bambina, trovavo le rose così belle che le avrei mangiate.
Ma nell' Olanda occupata dai nazisti, mentre i suoi amici vengono deportati, Etty attraversa una straordinaria metamorfosi: «Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c'è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri». Quale misteriosa strada si è aperta in una ragazza vivace, libera, quasi sorella delle adolescenti degli anni 70? (Il passo della Carità nella Lettera ai Corinzi induce lei, ebrea, a inginocchiarsi, in un gesto che non le è stato tramandato).
La storia erompe, tragica. Etty accompagna al treno un amico che parte per il nulla. In una notte come questa – scrive – bisognerebbe solo inginocchiarsi e pregare. Infine è il suo treno, a partire: «Ho aperto a caso la Bibbia: "Il Signore è il mio baluardo"».
Una sorella più grande: una che da ragazza, vorace di bellezza, voleva mangiarsi i fiori. Un giorno ha scoperto in fondo a sé un pozzo; e avidamente ne ha bevuto l'acqua viva.


Marina Corradi



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14/03/2013 09:57



Lei, all'alba, in pace


Milano, marzo 2008 - Le otto di sera. Nelle case di fronte la gente è a cena dietro le finestre illuminate. Qui, nel reparto non autosufficienti di una casa di riposo, le luci sono già spente. Nessuno, nei corridoi odorosi di disinfettante. I ricoverati dormono, le sbarre del letto rialzate. Sui comodini pile di pannoloni, come quelli dei neonati, solo più grandi. Ottant'anni, tra un'infanzia e l'altra. Ma nessuno vezzeggia questi vecchi bambini, così ossuti, sgraziati. Nel sonno uno si agita: «Mamma! Vieni!», grida. Dalla stanza degli infermieri voci basse, risate - la vita che si insinua in questo limbo, clandestina. Le lancette dell'orologio a muro, immobili.
L'ossigeno scorre con un suono d'acqua. La paziente più anziana respira a fatica. A tratti alza il busto, contrae le mani, nel fiato che manca. Il volto estenuato sembra chiedere pace; ma il cuore non si arrende, e batte disordinato, e fa sussultare il magro petto. Il cuore riottoso si ostina, scalcia - come se tutto, in noi, si ribellasse alla morte.
La paziente più anziana è mia madre, e io la veglio attonita: rivedendo i suoi begli occhi, e la mano che stringeva la mia, da bambina. (Stanotte, è come se mi venisse strappata da sotto i piedi la terra).
Lei, all'alba, in pace - il volto pallido da Madonna antica.


Marina Corradi



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15/03/2013 10:08



UNA STORIA NUOVA


Lampedusa, settembre 2008 - La motovedetta della Guardia Costiera salpa in soccorso di un barcone alla deriva, al largo. Sotto al sole cocente di mezzogiorno navighiamo veloci per mezz'ora. Finalmente un punto all'orizzonte. Eccoli, i naufraghi: un centinaio di uomini, donne, bambini su un gommone immobile fra le onde, che affonda sotto al loro peso. Mentre accostiamo cento occhi neri ci fissano, e nessuno dice una parola. Salgono sulla motovedetta, e tacciono: non uno che chieda acqua, o cibo. Solo una donna con un figlio in braccio piange, piano. Sfiniti i naufraghi, increduli d'essere salvi, dopo tre giorni - e tre notti, nell'infinita tenebra del mare.
In lontananza si intravvede appena una linea all'orizzonte: Lampedusa. I naufraghi la fissano come un'apparizione. Uno tira fuori un tappetino fradicio e si inginocchia sul ponte, a pregare. Un altro da uno zaino estrae un Vangelo in inglese, che gocciola acqua di mare. Esausti, miserabili, gli stranieri ringraziano Dio d'essere vivi, e in Europa. Come, forse, i coloni irlandesi, inglesi, fuggiaschi magari, o galeotti, quando scorgevano la costa del Nuovo Mondo.
Noi vecchi, noi avari di figli, noi ricchi; e giovani affamati popoli che sbarcano in Europa. Sul molo di Lampedusa la cronaca mi pare Storia, che incomincia, nuova.


Marina Corradi



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16/03/2013 09:40



LE SCARPE DEL CURATO


Ars-sur-Formans, marzo 2009. Il paese del Curato è ancora un grappolo di case, perso tra le colline del Dombe. È un martedì, piove, e non c'è nessuno nella canonica di Jean-Marie Vianney. Mi affaccio: stanze spoglie, muri di pietra, un focolare annerito. La casa del santo è abitata solo dal vento: che stamattina soffia così forte, con una voce scura. Scuri anche i vecchi mobili; e il crocefisso nella stanza da letto, di questa antica povertà il silenzioso signore. Fatico, tra queste cose morte, a immaginarmi quel prete, vivo.
Ma l'occhio mi cade su degli oggetti amorosamente conservati. C'è un ombrello nero, col manico grosso: quello sì, me lo vedo, in una mattina di marzo come questa, lucido di poggia, oscillante sui passi del parroco. E, accanto, le scarpe: un paio di grosse scarpe indicibilmente sformate. Anche le scarpe le immagino, per sterrate fangose, o nella polvere della siccità d'agosto, all'alba, in marcia verso il capezzale di un moribondo. Quanta strada devono avere fatto, queste scarpe. Ma, mi pare di averle già viste. (I ricordi, come i sogni, sono anarchici: vengono su senza ordine alcuno). Don Benzi, ecco, a don Oreste ho visto addosso delle scarpe così, nere, grosse, sfatte dall'andare. (Sono cari a Dio, penso, gli uomini che camminano per abbracciare).


Marina Corradi


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18/03/2013 10:19



SOLTANTO IL VENTO


L'Aquila, 18 aprile 2009 – Sotto a un cielo grigio la via che sale verso la Basilica di San Bernardino è deserta. I portoni sbarrati, e non una voce, non un'eco di tv accesa; per terra, infranti, pezzi di cornicione, vecchi coppi. Piazzetta della Commenda: un gatto rosso si avvicina, a chiedere carezze. E poi soltanto il vento, e il cigolio lamentoso di vecchie imposte. Nelle vetrine in frantumi i manichini in fila, con i loro sguardi vuoti.
È terribile, una città senza uomini. Questa rete armoniosa di vicoli, queste pietre, queste piccole piazze segrete sono fatte perché gli uomini le riempiano di passi, e di parole. Cos'è un cortile senza le voci dalle finestre aperte, senza il fruscio della ramazza del custode, la mattina, e i panni sui fili, stesi al sole? Cos'è una chiesa senza la Messa, e una piazza di mercato senza le grida dei venditori? E una scuola, senza la campana alla fine delle lezioni, e i ragazzi che vociando, ridendo, corrono fuori?
Tra le facciate sbrecciate, nella polvere, in questo silenzio di morte, sognare che L'Aquila risorga. Che le sue strade siano colme di nuovo di passi, e di grida di bambini. Che qualcuno di nuovo lasci le briciole sui davanzali ai passeri, e, in giardino, gli avanzi al cane. Che L'Aquila rinasca: nelle strade vuote, una preghiera.


Marina Corradi



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19/03/2013 06:58



NELLA TANA DEL LEONE


Londra, 2009 – Sotto a King Charles Street, dietro al Parlamento, le Cabinet War Rooms sono intatte: il gabinetto di guerra da dove Churchill guidò il Paese. In una luce artificiale livida, gli uffici e camerate delle dattilografe. Un cartello: «Fine and warm», «bello e soleggiato»: per ricordarsi, nel bunker sepolto, mentre le bombe incenerivano Londra, che fuori il cielo c'era ancora.
La stanza da cui Churchill trasmetteva sulla Bbc i discorsi da leone ascoltati clandestinamente in Europa, è uguale; i microfoni lucenti ancora sulla scrivania. La Map Room è tappezzata di mappe ingiallite. Dieci telefoni neri in linea dai fronti, e sulle mappe centinaia di spilli colorati: ogni spillo, migliaia di uomini di eserciti amici e nemici. (Quello spillo là, verso il Don, era la Julia, era anche mio padre).
Con i figli – silenziosi, in questo ipogeo di un altro mondo – riemergiamo nella Londra di oggi. Fra turisti di ogni paese, americani, tedeschi, dimentichi, lieti. Eppure, dice un figlio, commosso, «di qualcosa lì sotto avevo nostalgia».
Di cosa? Di una immensa collettiva speranza, del colossale sforzo che permise lo sbarco alleato in Normandia. Di uno strenuo desiderio di libertà e pace: una cosa grande, che mio figlio a 14 anni avverte, e nella svagatezza dell'oggi non trova.


Marina Corradi



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20/03/2013 10:53



EGELANTINSTRAAT, 147


Amsterdam, dicembre 2009 - Una settimana a Natale. Nevica forte stasera, attorno ai lampioni i fiocchi danzano come falene. Luminarie fastose rischiarano la notte: cascate di luce algida si specchiano sui marciapiedi candidi, si frammentano nei diamanti allineati nelle vetrine degli orefici, dietro a piazza Dam. In ogni negozio Babbi Natale, e ovunque, ossessive, le note di Jingle bells.
Il 58 per cento degli olandesi non sa cosa esattamente sia successo, duemila anni fa, il 24 dicembre, e molti dei campanili illuminati a festa appartengono a chiese chiuse, o trasformate in musei; mentre le moschee in città sono venti, e piene di fedeli.
Sono venuta a cercare il Natale nel Paese più secolarizzato d'Europa, ma, fra tante luci, fatico a trovarlo. Per mille Santa Klaus, finora ho visto un solo piccolo presepe - vicino alla Centraal Station, alla mensa dei poveri.
Nel quartiere di Jordaan, non un buon quartiere, in una via stretta c'è una casa spoglia, senza neanche una luce. Suono, mi apre una suora di Madre Teresa. Nella cappella spoglia un grande crocefisso, due sorelle in adorazione, e, davanti all'altare, una piccola mangiatoia vuota - sembra il palmo di una mano mendicante.
Egelantinstraat, 147. Né Jingle bells né luci, ma qui palpita, vivo nel silenzio, il Natale di Amsterdam.


Marina Corradi



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21/03/2013 10:45



L'ORA DELL'APPELLO


Czestochowa, luglio 2010 – Alle nove di sera è l'ora dell'Appello. Nel santuario di Jasna Gora convergono i pellegrini. Nell'imbrunire estivo passano svelti sotto il san Michele Arcangelo con la spada sguainata verso il cielo, ed entrano tra le poderose mura turrite, da fortezza. Zitti, veloci, verso la cappella. Nella penombra che splende di ori ci si avvicina più che si può alla Madonna bruna, i cui begli occhi paiono guardare chi la guarda.
La Bogurodzica, antica preghiera mariana, colma la chiesa. Il tonfo sordo e simultaneo di centinaia di fedeli che si inginocchiano insieme, nel medesimo istante, colpisce lo straniero: pare il devoto omaggio di un esercito, al passare della sua regina.

E ora l'Appello è finito, e la gente sciama fuori, nel buio. Restano a vegliare solo dei pellegrini venuti da lontano. Ma in fondo, negli ultimi banchi, nella penombra sono rimasti anche quattro vecchi clochard. Uno, magro, la faccia scavata, ha una borsa all'apparenza molto pesante. Si inginocchia con la fronte per terra e resta lì, immobile, il suo fardello accanto; come avesse portato fin qui un antico dolore.
E il portone di Jasna Gora ora chiude con un tonfo, ma i guardiani sembrano non vedere i quattro mendicanti, e li lasciano lì. Pregano? Dormono? Comunque, davanti alla Madonna: a casa loro.


Marina Corradi



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