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Udine, la lettera del trentenne suicida: "Sono stufo di sopravvivere". I genitori: "Il precariato lo ha ucciso"

Ultimo Aggiornamento: 08/02/2017 16:29
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Michele si è tolto la vita il 31 gennaio, deluso e stanco di una vita fatta di rifiuti e mediocrità. Le sue ultime parole sono state pubblicate sul Messaggero Veneto

di AGNESE ANANASSO
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07 febbraio 2017
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Il precariato ha ucciso ancora. Un trentenne di Udine, schiacciato dalla paura di un futuro incerto, da vivere "al minimo" e non "al massimo" come desiderava, si è tolto la vita lo scorso 31 gennaio, lasciando una lettera di addio e di scuse, che i genitori hanno deciso di affidare alle pagine del Messaggero Veneto, portando di nuovo sotto i riflettori il dramma di tanti giovani che non trovano lavoro, un dramma confermato dai numeri: in Italia la disoccupazione giovanile supera il 40%. Un gesto quello dei genitori di pubblicare la lettera fatto per denunciare il fallimento di "una società moribonda, che divora i suoi figli".

È una lettera lucida, serena nella sua crudeltà, nell'affermare l'incapacità di continuare a sopportare di "vivere male", di "sopravvivere". "Ho vissuto (male) per trent'anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi" ha scritto Michele. "Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un'arte".

Parole stanche, frasi di sfiducia, nel futuro, nella vita, negli altri, tra colloqui andati male, sforzi inutili e illusione. "Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l'altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.Tutte balle".

Michele arriva a fare una profonda critica delle sue qualità, in un mondo in cui la sensibilità e l'attenzione diventano una palla al piede, mentre vengono premiate la normalità, la conformità e la banalità. "Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile".

Quella di Michele è una resa, la rinuncia a una vita dove tutto si fa rarefatto, instabile, faticoso. Una resa distaccata, di chi ormai ha preso la decisione di tirarsene fuori, per dire "non è più affar mio". "Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo" si legge nella lettera. "Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c'entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione".

Rivendica la sua libertà di scelta Michele, la libertà di non far più parte di una realtà che lo ha tradito, scegliendo la morte, quasi che la "fine" lo liberi dalla sofferenza di vivere, ma soprattutto dalla rabbia di un mondo per il quale lui non è mai esistito. "Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c'è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un'epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l'alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l'ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c'è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po'. Basta con le ipocrisie".

In un estremo gesto di ribellione, dettato da un sentimento di delusione, Michele scrive: "Non mi faccio ricattare dal fatto che è l'unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all'individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino".

Il giovane sa che provocherà un grande dolore ai suoi genitori e ai suoi amici e chiede scusa a tutti per il suo gesto: "Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c'era caos. Dentro di me c'era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un'accusa di alto tradimento".

Ma chiude con un'accusa esplicita a chi avrebbe dovuto in qualche modo tutelare il futuro dei giovani, almeno sulla carta: "Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto".


www.repubblica.it/cronaca/2017/02/07/news/udine_suicidio_trentenne_precario-15...
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Michele e la lettera prima del suicidio: non fate della sua morte un manifesto
Michele e la lettera prima del suicidio: non fate della sua morte un manifesto
di Veronica Gentili | 8 febbraio 2017
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Più informazioni su: Precari, Suicidi
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Veronica Gentili
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Ho appena letto la lettera di Michele, il giovane ragazzo friulano che si è suicidato, anzi come scrivono i giornali che ‘è stato ucciso dal precariato’. Questa lettera mi ha molto turbata. E non solo per tutte quelle ragioni per cui è chiaro che ti turbino le parole di congedo di un ragazzo che decide di lasciare la vita. Mi ha turbato profondamente l’aggressività con cui Michele rimprovera al mondo di non avergli saputo dare ciò che avrebbe meritato, di non essere stato alla sua altezza.

Le recriminazioni di Michele coinvolgono tutto e tutti: una realtà cinica che privilegia la normalità alla sensibilità, un mondo del lavoro che non ha saputo offrirgli lo spazio che avrebbe meritato, un genere femminile che non ha voluto ricambiare i suoi desideri, un ministro del Lavoro che non ha saputo valorizzare i suoi giovani. Michele non ha trovato il mondo che voleva e che riteneva gli fosse dovuto (“Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato”) e con un j’accuse onnicomprensivo stigmatizza tutti i tasselli della realtà che lo hanno deluso.

Ed è proprio in quest’onnicomprensività, in questa rabbia generalizzata, che tutte le speculazioni sociologiche perdono di senso. Michele è un trentenne, un animo in lotta, che vive il calvario dello stare al mondo: mi è coetaneo, sento in parte di comprenderne le fatiche e i dolori. Non ho mai condannato e ho sempre ‘capito’ coloro che decidono di non voler più scendere a patti con la vita, che sentono di non reggere più il peso delle vessazioni a cui essa può sottoporre; credo che siamo esseri liberi che hanno sempre il diritto di scegliere.

Quello che non credo e non voglio, però, è che la lettera di Michele diventi un manifesto, che venga interpretata come il grido di una generazione soccombente ai soprusi e alla sordità del mondo in cui si trova. Non perché questa generazione non sia vessata, non sia precaria, non debba lottare in maniera spropositata per ottenere il minimo sindacale, ma perché non è questo che trapela dal profondo delle parole di Michele. In quella lettera si legge una rabbia assoluta, indistinta, verso tutto e tutti: è una lettera che si sarebbe potuta scrivere in qualunque epoca, che àncora alla cronaca di oggi una frustrazione che può essere tanto di ieri quanto di domani. Farne perciò lo stigma della polemica giovanile contro il precariato è inopportuno e, a mio avviso, sbagliato.

Michele è un giovane uomo che si è spezzato sotto il peso di un vissuto troppo intenso e doloroso perché lui riuscisse a sopportarlo: la percezione della sofferenza rientra nell’ambito soggettivo e ciascuno può fissarne i limiti. Farne il martire della generazione dei precari del nuovo millennio, vittime del sistema, e del ministro Poletti, invece, pretenderebbe di essere una considerazione oggettiva. E questa sarebbe falsa. E’ giocando su questo fraintendimento che si finirebbe con lo strumentalizzare la morte di Michele, utilizzandola come un’arma impropria, un colpo sotto la cintura, che vizierebbe l’integrità del sacrosanto corpo a corpo che questa generazione sta combattendo con il suo tempo e con la società che la circonda


www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/08/michele-e-la-lettera-prima-del-suicidio-non-fate-della-sua-morte-un-manifesto/...
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