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Il pensiero del Papa e le sue parole - Articoli

Ultimo Aggiornamento: 27/02/2013 17:52
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26/03/2011 20:12


"Su questo sagrato del Dio Ignoto..."

Il messaggio videotrasmesso dal papa ai partecipanti alla veglia di chiusura della sessione del "Cortile dei gentili", sul sagrato della cattedrale di Notre-Dame di Parigi, il 25 marzo 2011

di Benedetto XVI



Cari giovani, cari amici!

So che vi siete riuniti numerosi sul sagrato di Notre-Dame de Paris, su invito del Cardinale André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi, e del Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Vi saluto tutti, senza dimenticare i fratelli e gli amici della Comunità di Taizé. Sono grato al Pontificio Consiglio per aver ripreso e sviluppato il mio invito ad aprire, nella Chiesa, dei "Cortili dei gentili", immagine che richiama quello spazio aperto sulla vasta spianata vicino al Tempio di Gerusalemme, che permetteva a tutti coloro che non condividevano la fede di Israele di avvicinarsi al Tempio e di interrogarsi sulla religione. In quel luogo, essi potevano incontrare degli scribi, parlare della fede ed anche pregare il Dio ignoto. E se, all’epoca, il Cortile era allo stesso tempo un luogo di esclusione, poiché i "Gentili" non avevano il diritto di entrare nello spazio sacro, Cristo Gesù è venuto per "abbattere il muro di separazione che divideva" ebrei e gentili, "per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunziare pace..." (Ef 2, 14-17), come ci dice san Paolo.

Nel cuore della "Città delle Luci", davanti a questo magnifico capolavoro della cultura religiosa francese, Notre-Dame di Paris, un grande spazio si apre per dare nuovo impulso all’incontro rispettoso ed amichevole tra persone di convinzioni diverse. Giovani, credenti e non credenti presenti questa sera, voi volete stare insieme, questa sera come nella vita di tutti i giorni, per incontrarvi e dialogare a partire dai grandi interrogativi dell’esistenza umana. Al giorno d’oggi, molti riconoscono di non appartenere ad alcuna religione, ma desiderano un mondo nuovo e più libero, più giusto e più solidale, più pacifico e più felice. Nel rivolgermi a voi, prendo in considerazione tutto ciò che avete da dirvi: voi non credenti, volete interpellare i credenti, esigendo da loro, in particolare, la testimonianza di una vita che sia coerente con ciò che essi professano e rifiutando qualsiasi deviazione della religione che la renda disumana. Voi credenti, volete dire ai vostri amici che questo tesoro racchiuso in voi merita una condivisione, un’interrogativo, una riflessione. La questione di Dio non è un pericolo per la società, essa non mette in pericolo la vita umana! La questione di Dio non deve essere assente dai grandi interrogativi del nostro tempo.

Cari amici, siete chiamati a costruire dei ponti tra voi. Sappiate cogliere l’opportunità che vi si presenta per trovare, nel profondo delle vostre coscienze, in una riflessione solida e ragionata, le vie di un dialogo precursore e profondo. Avete tanto da dirvi gli uni agli altri. Non chiudete la vostra coscienza di fronte alle sfide e ai problemi che avete davanti.

Credo profondamente che l’incontro tra la realtà della fede e quella della ragione permetta all’uomo di trovare se stesso. Ma troppo spesso la ragione si piega alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscere quest’ultima come criterio ultimo. La ricerca della verità non è facile. E se ciascuno è chiamato a decidersi, con coraggio, a favore della verità, è perché non esistono scorciatoie verso la felicità e la bellezza di una vita compiuta. Gesù lo dice nel Vangelo: "La verità vi renderà liberi".

Spetta a voi, cari giovani, far sì che, nel vostro Paese e in Europa, credenti e non credenti ritrovino la via del dialogo. Le religioni non possono aver paura di una laicità giusta, di una laicità aperta che permette a ciascuno di vivere ciò che crede, secondo la propria coscienza. Se si tratta di costruire un mondo di libertà, di uguaglianza e di fraternità, credenti e non credenti devono sentirsi liberi di essere tali, eguali nei loro diritti a vivere la propria vita personale e comunitaria restando fedeli alla proprie convinzioni, e devono essere fratelli tra loro.

Una delle ragion d’essere di questo Cortile dei Gentili è quella di operare a favore di questa fraternità al di là delle convinzioni, ma senza negarne le differenze. E, ancor più profondamente, riconoscendo che solo Dio, in Cristo, ci libera interiormente e ci dona la possibilità di incontrarci davvero come fratelli.

Il primo degli atteggiamenti da assumere o delle azioni che potete compiere insieme è rispettare, aiutare ed amare ogni essere umano, poiché esso è una creatura di Dio e in un certo modo la strada che conduce a Lui. Portando avanti ciò che vivete questa sera, contribuite ad abbattere le barriere della paura dell’altro, dello straniero, di colui che non vi assomiglia, paura che spesso nasce dall’ignoranza reciproca, dallo scetticismo o dall’indifferenza. Siate attenti a rafforzare i legami con tutti i giovani senza distinzioni, vale a dire non dimenticando coloro che vivono in povertà o in solitudine, coloro che soffrono per la disoccupazione, che attraversano la malattia o che si sentono ai margini della società.

Cari giovani, non è solo la vostra esperienza di vita che potete condividere, ma anche il vostro modo di avvicinarvi alla preghiera. Credenti e non credenti, presenti su questo sagrato dell’Ignoto, siete invitati ad entrare anche all’interno dello spazio sacro, a varcare il magnifico portale di Notre-Dame e ad entrare nella cattedrale per un momento di preghiera. Per alcuni di voi, questa preghiera sarà una preghiera ad un Dio conosciuto nella fede, ma per gli altri essa potrà essere anche una preghiera al Dio Ignoto. Cari giovani non credenti, unendovi a coloro che stanno pregando all’interno di Notre-Dame, in questo giorno dell’Annunciazione del Signore, aprite i vostri cuori ai testi sacri, lasciatevi interpellare dalla bellezza dei canti e, se lo volete davvero, lasciate che i sentimenti racchiusi in voi si elevino verso il Dio Ignoto.

Sono lieto di aver potuto rivolgermi a voi questa sera per questo momento inaugurale del Cortile dei Gentili. Spero che vorrete rispondere ad altri appuntamenti che ho fissato, in particolare alla Giornata Mondiale della Gioventù, quest’estate, a Madrid. Il Dio che i credenti imparano a conoscere vi invita a scoprirLo e vivere di Lui sempre più. Non abbiate paura! Sulla strada che percorrete insieme verso un mondo nuovo, siate cercatori dell’Assoluto e cercatori di Dio, anche voi per i quali Dio è il Dio Ignoto.

E che Colui che ama tutti e ciascuno di voi vi benedica e vi protegga. Egli conta su di voi per prendersi cura degli altri e dell’avvenire, e voi potete contare su di Lui!



__________

26.3.2011



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04/04/2011 18:54



ANGELUS

«La fede è la forza per vincere il male»


Cari fratelli e sorelle!
L’itinerario quaresimale che stiamo vivendo è un tempo particolare di grazia, durante il quale possiamo sperimentare il dono della benevolenza del Signore nei nostri confronti. La liturgia di questa domenica, denominata "Laetare", invita a rallegrarci, a gioire, così come proclama l’antifona d’ingresso della celebrazione eucaristica: "Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione" (cfr Is 66,10-11). Qual è la ragione profonda di questa gioia? Ce lo dice il Vangelo odierno, nel quale Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita. La domanda che il Signore Gesù rivolge a colui che era stato cieco costituisce il culmine del racconto: "Tu credi nel Figlio dell’uomo?" (Gv 9,35). Quell’uomo riconosce il segno operato da Gesù e passa dalla luce degli occhi alla luce della fede: "Credo, Signore!" (Gv 9,38). È da evidenziare come una persona semplice e sincera, in modo graduale, compie un cammino di fede: in un primo momento incontra Gesù come un "uomo" tra gli altri, poi lo considera un "profeta", infine i suoi occhi si aprono e lo proclama "Signore". In opposizione alla fede del cieco guarito vi è l’indurimento del cuore dei farisei che non vogliono accettare il miracolo, perché si rifiutano di accogliere Gesù come il Messia. La folla, invece, si sofferma a discutere sull’accaduto e resta distante e indifferente. Gli stessi genitori del cieco sono vinti dalla paura del giudizio degli altri.

E noi, quale atteggiamento assumiamo di fronte a Gesù? Anche noi a causa del peccato di Adamo siamo nati "ciechi", ma nel fonte battesimale siamo stati illuminati dalla grazia di Cristo. Il peccato aveva ferito l’umanità destinandola all’oscurità della morte, ma in Cristo risplende la novità della vita e la meta alla quale siamo chiamati. In Lui, rinvigoriti dallo Spirito Santo, riceviamo la forza per vincere il male e operare il bene. Infatti la vita cristiana è una continua conformazione a Cristo, immagine dell’uomo nuovo, per giungere alla piena comunione con Dio. Il Signore Gesù è "la luce del mondo" (Gv 8,12), perché in Lui "risplende la conoscenza della gloria di Dio" (2 Cor 4,6) che continua a rivelare nella complessa trama della storia quale sia il senso dell’esistenza umana. Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento.

Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione. In questi giorni che ci preparano alla Pasqua ravviviamo in noi il dono ricevuto nel Battesimo, quella fiamma che a volte rischia di essere soffocata. Alimentiamola con la preghiera e la carità verso il prossimo.
Alla Vergine Maria, Madre della Chiesa, affidiamo il cammino quaresimale, perché tutti possano incontrare Cristo, Salvatore del mondo.

Benedetto XVI

[Modificato da auroraageno 04/04/2011 18:55]

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21/04/2011 20:13


21 aprile 2011

GIOVEDI' SANTO

Il Papa: l'Occidente esca dalla sua incredulità


"Cari amici, per il Papa è un grande conforto sapere che in ogni celebrazione eucaristica tutti pregano per lui". Lo ha detto Papa Ratzinger nell'omelia della messa in Coena DominI celebrata in San Giovanni in Laterano. Benedetto XVI ha affermato che "solo grazie alla preghiera del Signore e della Chiesa il Papa può corrispondere al suo compito di confermare i fratelli, di pascere il gregge di Gesù e di farsi garante per quell'unità che diventa testimonianza visibile della missione di Gesù". E ha poi citato il Vangelo che ha previsto prove dolorose per la Chiesa presa di mira dal demonio. "Oggi - ha detto - constatiamo con dolore nuovamente che a Satana è stato concesso di vagliare i discepoli visibilmente davanti a tutto il mondo. E sappiamo che Gesù prega per la fede di Pietro e dei suoi successori. Sappiamo che Pietro, che attraverso le acque agitate della storia va incontro al Signore ed è in pericolo di affondare, viene sempre di nuovo sorretto dalla mano del Signore e guidato sulle acque".

LA MESSA CRISMALE

Segni sacramentali come gli olii sacrì rappresentano un contatto "incarnato" tra fede e umanità. Segni che dovrebbero interrogare l'uomo sul senso della vita e sulle sue radici di fede. A ricordarlo è stato oggi Benedetto XVI nell'omelia pronunciata durante la messa crismale del Giovedì Santo, presieduta nella basilica di S. Pietro, in Vaticano, con 30 cardinali, 60 vescovi e migliaia tra presbiteri, religiosi e fedeli. Il pontefice ha ricordato il senso della benedizione degli olii che hanno aperto i riti della Pasqua e ha ricordato che "i cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo" e che, quindi, "dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui".

«NON SIAMO DIVENTATI IN GRAN PARTE UN POPOLO DELL'INCREDULITA'?»

"Non siamo forse noi, popolo di Dio - si è chiesto il papa - diventati in gran parte un popolo dell'incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l'Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo?". Papa Ratzinger ha quindi rivolto una invocazione: "Abbiamo motivo di gridare in quest'ora a Dio: "Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa' che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa' che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinchè con gioia testimoniamo il tuo
messaggio!".

"Ricercate sempre il suo volto", ha esortato Benedetto XVI citando il Salmo 105 e il commento di sant'Agostino, al cui pensiero il teologo Joseph Ratzinger si è sempre ispirato. "Dio è tanto grande - ha spiegato citando il santo vescovo di Ippona - da superare sempre infinitamente tutta la nostra conoscenza e tutto il nostro essere. Il conoscere Dio non si esaurisce mai. Per tutta l'eternità possiamo, con una gioia crescente, sempre continuare a cercarlo, per conoscerlo sempredi più ed amarlo sempre di più". "Inquieto - ha rilevato ancora il Pontefice sempre citandoAgostino - il nostro cuore, finchè non riposi in te". "Sì - ha concluso - l'uomo è inquieto, perchè tutto ciò che è temporale è troppo poco. Ma siamo veramente inquieti verso di Lui? Non ci siamo forse rassegnati alla sua assenza e cerchiamo di bastare a noi stessi? Non permettiamo simili riduzioni del nostro essere umano. Rimaniamo continuamente in cammino verso di Lui, nella nostalgia di Lui, nell'accoglienza sempre nuova di conoscenza e di amore".

GUARIRE IL CUORE FERITO DEGLI UOMINI

Per il Pontefice teologo, "l'annuncio del Regno di Dio, della bontà illimitata di Dio, deve suscitare innanzitutto questo: guarire il cuore ferito degli uomini". "L'uomo per la sua stessa essenza - ha ricordato - è un essere in relazione. Se, però, è perturbata la relazione fondamentale, la relazione con Dio, allora anche tutto il resto è perturbato". "Se il nostro rapporto con Dio è perturbato, se l'orientamento fondamentale del nostro essere è sbagliato, non possiamo neppure veramente guarire nel corpo e nell'anima. Per questo, la prima e fondamentale guarigione avviene nell'incontro con Cristo che ci riconcilia con Dio e risana il nostro cuore affranto", ha continuato Ratzinger facendo poi indirettamente allusione alle centinaia di grazie che nel mondo vengono attribuite all'intercessione dell'ormai prossimo beato Giovanni Paolo II e a tutti gli altri santi e beati. "Fa parte della missione essenziale della Chiesa - ricordato in proposito - anche la guarigione concreta della malattia e della sofferenza. L'olio per l'Unzione degli infermi è espressione sacramentale visibile di questa missione. Fin dagli inizi - infatti - è maturata nella Chiesa la chiamata a guarire, è maturato l'amore premuroso verso persone angustiate nel corpo e nell'anima".

La messa crismale, dunque, "è anche l'occasione per ringraziare una volta tanto le sorelle e i fratelli che in tutto il mondo portano un amore risanatore agli uomini, senza badare alla loro posizione o confessione religiosa. Da Elisabetta di Turingia, Vincenzo de Paoli, Louise de Marillac, Camillo de Lellis fino a Madre Teresa - ha elencato per ricordare soltanto alcuni nomi attraversa il mondo una scia luminosa di persone, che ha origine nell'amore di Gesù per i sofferenti e i malati". Per questo, ha rilevato il Papa tedesco, "ringraziamo in quest'ora il Signore. Per questo ringraziamo tutti coloro che, in virtù della fede e dell'amore, si mettono a fianco dei sofferenti, dando con ciò, in definitiva, testimonianza della bontà propria di Dio".

L'olio per l'Unzione degli infermi, benedetto durante l'odierna liturgia presieduta dai vescovi in tutte le cattedrali del mondo, "è segno di quest'olio della bontà del cuore, che queste persone, insieme con la loro competenza professionale portano ai sofferenti". Essi spesso, "senza parlare di Cristo, lo manifestano uomini. Egli viene incontro all'inquietudine del nostro cuore, all'inquietudine del nostro domandare e cercare, con l'inquietudine del suo stesso cuore, che lo induce a compiere per noi l'atto estremo" della Redenzione. "L'inquietudine nei confronti di Dio, l'essere in cammino verso di Lui, per conoscerlo meglio, per amarlo meglio - ha scandito il Pontefice - non deve spegnersi in noi". In questo senso, ha concluso, dovremmo sempre rimanere catecumeni".







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13/06/2011 10:52


11 giugno 2011

Ai rappresentanti di diverse etnie di zingari e rom

Il Papa agli zingari: costruite l'integrazione


Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

È per me una grande gioia incontrarvi e darvi un cordiale benvenuto, in occasione del vostro pellegrinaggio alla tomba dell’Apostolo Pietro. Ringrazio l’Arcivescovo Mons. Antonio Maria Vegliò, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, per le parole che mi ha rivolto anche a nome vostro e per aver organizzato l’evento. Estendo l’espressione della mia gratitudine anche alla Fondazione "Migrantes" della Conferenza Episcopale Italiana, alla Diocesi di Roma e alla Comunità di Sant’Egidio, per aver collaborato a realizzare questo pellegrinaggio e per quanto fanno quotidianamente per la vostra accoglienza e integrazione. Un "grazie" particolare a voi, che avete offerto le vostre testimonianze, davvero significative.

Siete giunti a Roma da ogni parte d’Europa per manifestare la vostra fede e il vostro amore per Cristo, per la Chiesa - che è una casa per tutti voi - e per il Papa. Il Servo di Dio Paolo VI rivolse agli Zingari, nel 1965, queste indimenticabili parole: "Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore. Voi siete nel cuore della Chiesa". Anch’io ripeto oggi con affetto: voi siete nella Chiesa! Siete un’amata porzione del Popolo di Dio pellegrinante e ci ricordate che "non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura" (Eb 13,14). Anche a voi è giunto il messaggio di salvezza, a cui avete risposto con fede e speranza, arricchendo la comunità ecclesiale di credenti laici, sacerdoti, diaconi, religiose e religiosi zingari. Il vostro popolo ha dato alla Chiesa il beato Zefirino Giménez Malla, di cui celebriamo il centocinquantesimo anniversario della nascita e il settantacinquesimo del martirio. L’amicizia con il Signore ha reso questo Martire testimone autentico della fede e della carità. Con l’intensità con cui egli adorava Dio e scopriva la sua presenza in ogni persona e in ogni avvenimento, il beato Zefirino amava la Chiesa e i suoi Pastori. Terziario francescano, rimase fedele al suo essere zingaro, alla storia e all’identità della propria etnia. Sposato secondo la tradizione dei gitani, assieme alla consorte decise di convalidare il legame nella Chiesa con il sacramento del Matrimonio. La sua profonda religiosità trovava espressione nella partecipazione quotidiana alla Santa Messa e nella recita del Rosario. Proprio la corona, che teneva sempre in tasca, divenne causa del suo arresto e fece del beato Zefirino un autentico "martire del Rosario", poiché non lasciò che gliela togliessero di mano nemmeno in punto di morte. Oggi, il beato Zefirino vi invita a seguire il suo esempio e vi indica la via: la dedizione alla preghiera e in particolare al Rosario, l’amore per l’Eucaristia e per gli altri Sacramenti, l’osservanza dei comandamenti, l’onestà, la carità e la generosità verso il prossimo, specialmente verso i poveri; ciò vi renderà forti di fronte al rischio che le sette o altri gruppi mettano in pericolo la vostra comunione con la Chiesa.

La vostra storia è complessa e, in alcuni periodi, dolorosa. Siete un popolo che nei secoli passati non ha vissuto ideologie nazionaliste, non ha aspirato a possedere una terra o a dominare altre genti. Siete rimasti senza patria e avete considerato idealmente l’intero Continente come la vostra casa. Tuttavia, persistono problemi gravi e preoccupanti, come i rapporti spesso difficili con le società nelle quali vivete. Purtroppo lungo i secoli avete conosciuto il sapore amaro della non accoglienza e, talvolta, della persecuzione, come è avvenuto nella II Guerra Mondiale: migliaia di donne, uomini e bambini sono stati barbaramente uccisi nei campi di sterminio. È stato - come voi dite - il Porrájmos, il "Grande Divoramento", un dramma ancora poco riconosciuto e di cui si misurano a fatica le proporzioni, ma che le vostre famiglie portano impresso nel cuore. Durante la mia visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, il 28 maggio 2006, ho pregato per le vittime della persecuzione e mi sono inchinato di fronte alla lapide in lingua romanes, che ricorda i vostri caduti. La coscienza europea non può dimenticare tanto dolore! Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, di rifiuto e di disprezzo! Da parte vostra, ricercate sempre la giustizia, la legalità, la riconciliazione e sforzatevi di non essere mai causa della sofferenza altrui!

Oggi, grazie a Dio, la situazione sta cambiando: nuove opportunità si aprono davanti a voi, mentre state acquistando nuova consapevolezza. Nel tempo avete creato una cultura dalle espressioni significative, come la musica e il canto, che hanno arricchito l’Europa. Molte etnie non sono più nomadi, ma cercano stabilità con nuove aspettative di fronte alla vita. La Chiesa cammina con voi e vi invita a vivere secondo le impegnative esigenze del Vangelo confidando nella forza di Cristo, verso un futuro migliore. Anche l’Europa, che riduce le frontiere e considera ricchezza la diversità dei popoli e delle culture, vi offre nuove possibilità. Vi invito, cari amici, a scrivere insieme una nuova pagina di storia per il vostro popolo e per l’Europa! La ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi su cui costruire quell’integrazione da cui trarrete beneficio voi e l’intera società. Date anche voi la vostra fattiva e leale collaborazione, affinché le vostre famiglie si collochino degnamente nel tessuto civile europeo! Numerosi tra voi sono i bambini e i giovani che desiderano istruirsi e vivere con gli altri e come gli altri. A loro guardo con particolare affetto, convinto che i vostri figli hanno diritto a una vita migliore. Sia il loro bene la vostra più grande aspirazione! Custodite la dignità e il valore delle vostre famiglie, piccole Chiese domestiche, perché siano vere scuole di umanità (cfr Gaudium et spes, 52). Le istituzioni, da parte loro, si adoperino per accompagnare adeguatamente questo cammino.

Infine, anche voi siete chiamati a partecipare attivamente alla missione evangelizzatrice della Chiesa, promuovendo l’attività pastorale nelle vostre comunità. La presenza tra di voi di sacerdoti, diaconi e persone consacrate, che appartengono alle vostre etnie, è dono di Dio e segno positivo del dialogo delle Chiese locali con il vostro popolo, che occorre sostenere e sviluppare. Date fiducia e ascolto a questi vostri fratelli e sorelle, e offrite insieme a loro il coerente e gioioso annuncio dell’amore di Dio per il popolo zingaro, come per tutti i popoli! La Chiesa desidera che tutti gli uomini si riconoscano figli dello stesso Padre e membri della stessa famiglia umana. Siamo alla Vigilia di Pentecoste, quando il Signore effuse il suo Spirito sugli Apostoli che cominciarono ad annunciare il Vangelo nelle lingue di tutti i popoli. Lo Spirito Santo elargisca i suoi doni in abbondanza su tutti voi, sulle vostre famiglie e comunità sparse nel mondo e vi renda testimoni generosi di Cristo Risorto. Maria Santissima, tanto cara al vostro popolo e che voi invocate come "Amari Devleskeridej", "Nostra Madre di Dio", vi accompagni per le vie del mondo e il beato Zefirino vi sostenga con la sua intercessione.

Ringrazio di cuore tutti voi giunti qui alla sede di Pietro per manifestare la vostra fede e il vostro amore per la Chiesa e per il Papa. Il Beato Zefirino sia per tutti voi esempio di una vita vissuta per Cristo e per la Chiesa, nell’osservare i comandamenti e nell’amore verso il prossimo. Il Papa è vicino a ognuno di voi e vi ricorda nelle sue preghiere. Il Signore benedica voi, le vostre comunità, le vostre famiglie e il vostro futuro. Il Signore vi doni salute e fortuna. Rimanete con Dio!



da L'Avvenire



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16/07/2011 22:54


Il metodo della nuova evangelizzazione indicato da Benedetto XVI

Se la felicità ha il nome di Gesù

di FRANCESCO VENTORINO



Mostrare che la felicità desiderata dal cuore umano ha un solo nome, quello di Gesù. Ecco il metodo della nuova evangelizzazione che il Papa ha suggerito il 13 giugno scorso, inaugurando il convegno ecclesiale della diocesi di Roma. Ha voluto riferirsi, per questo, a uno dei padri della Chiesa, sant'Ilario di Poitiers. Secondo la sua stessa testimonianza, Ilario divenne credente nel momento in cui comprese che per una vita veramente felice erano insufficienti sia il possesso, sia il tranquillo godimento delle cose. Qualcosa di più importante e prezioso lo attraeva: la conoscenza della verità e la pienezza dell'amore donati da Cristo (cfr. De Trinitate 1, 2). "Non dobbiamo anche noi oggi - si è chiesto pertanto Benedetto XVI - mostrare la bellezza e la ragionevolezza della fede, portare la luce di Dio all'uomo del nostro tempo, con coraggio, con convinzione, con gioia?".
Mostrare la "ragionevolezza della fede". Ecco uno dei temi ricorrenti nel magistero di Joseph Ratzinger, il quale già nel 2003 aveva annotato con coraggio: "Deve addirittura apparire un miracolo che nonostante tutto si continui a credere cristianamente". Al tempo stesso, egli si rendeva conto che la fede aveva ancora una possibilità di successo ai nostri giorni. Come mai? Per l'intima ragionevolezza della verità cristiana, cioè per la sua corrispondenza al cuore dell'uomo: "Nell'uomo vi è un'inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere" (Joseph Ratzinger, Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 143).
Mostrare la ragionevolezza della verità della fede, e non soltanto dell'atto del credere, è un'arte alla quale siamo stati poco adusati. Secondo un certo metodo apologetico, le ragioni per aderire alla rivelazione cristiana sono fondate soprattutto sull'argomento dell'autorità divina che rivela e non sulla corrispondenza alla ragione della verità rivelata. Si tende, così, in forza di una sottolineatura eccessiva del suo carattere soprannaturale, a concepire tale verità come priva di qualsiasi forma di evidenza di fronte alla ragione dell'uomo; per lo meno, non è questa evidenza che innanzitutto viene cercata. In una simile prospettiva, infatti, tutte le energie della ragione sono convogliate nell'accertamento fattuale della rivelazione di Dio. Agli argomenti desunti dalla corrispondenza della religione cattolica alle aspirazioni del cuore umano non si accorda un valore apodittico, semmai di conferma.
E così può accadere - ha detto il Papa al convegno della diocesi di Roma citando anche Giovanni Paolo II e la sua insistenza sulla necessità di una nuova evangelizzazione - che tanti, "pur avendo già sentito parlare della fede, non apprezzano, non conoscono più la bellezza del Cristianesimo, anzi, talvolta lo ritengono addirittura un ostacolo per raggiungere la felicità". Si consuma una scissione tra la verità cristiana e la soddisfazione del cuore, come se la felicità potesse risiedere altrove, in qualcosa che l'uomo è in grado di darsi da sé. Da qui gli idoli con i quali essa è stata sostituita: la lussuria, l'avarizia e il potere, i nuovi dei di cui parlava Thomas S. Eliot nei Cori della Rocca. L'itinerario alla fede proposto da Benedetto XVI si radica invece su una più antica tradizione ecclesiale. Secondo il pensiero di Agostino e di Tommaso d'Aquino, infatti, l'uomo è "fatto per Dio" e pertanto reca in sé questa paradossale situazione storica, per la quale è destinato dalla sua natura a conseguire un fine, la vita eterna, che non può raggiungere con le proprie forze, ma solo in virtù della grazia (cfr. Summa Theologiae, I-II, 114, 2, ad 1). È per questo che l'incontro con Cristo e la fede che ne consegue sono l'inizio della felicità eterna (cfr. De Veritate, I, 14, 2, c).
Ecco la ragione dell'accorata insistenza del magistero di Benedetto XVI: "Perciò oggi desidero ripetere quanto dissi ai giovani nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia: "La felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell'Eucaristia"!". Non esiste, infatti, evangelizzazione compiuta, se non quella che termina nel riconoscimento di Cristo, avvertito come la risposta a tutte le domande del nostro cuore e alle esigenze più profonde della nostra ragione.



(©L'Osservatore Romano 17 luglio 2011)


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21/08/2011 19:17






Nonostante stanchezza, caldo, sete, pioggia e, infine, una notte quasi insonne, un milione e mezzo, forse due milioni, di giovani pellegrini hanno accolto con gioia incontenibile Benedetto XVI nell’immenso campo della base aerea nel quale ha celebrato la Messa conclusiva. «Il mondo ha bisogno certamente di Dio, ha bisogno della testimonianza della vostra fede»: questa la consegna che il Papa ha lasciato ai giovani, in procinto di rientrare nei Paesi d'origine. In conclusione l'annuncio che la prossima Gmg si terrà nel 2013 a Rio de Janeiro, in Brasile.


21 agosto 2011

Santa Messa conclusiva

«Il mondo ha bisogno certamente di Dio,
ha bisogno della testimonianza della vostra fede»



Cari giovani,

con la celebrazione dell’Eucaristia giungiamo al momento culminante di questa Giornata Mondiale della Gioventù. Nel vedervi qui, venuti in gran numero da ogni parte, il mio cuore si riempie di gioia pensando all’affetto speciale con il quale Gesù vi guarda. Sì, il Signore vi vuole bene e vi chiama suoi amici (cfr Gv 15,15). Egli vi viene incontro e desidera accompagnarvi nel vostro cammino, per aprirvi le porte di una vita piena e farvi partecipi della sua relazione intima con il Padre. Noi, da parte nostra, coscienti della grandezza del suo amore, desideriamo corrispondere con ogni generosità a questo segno di predilezione con il proposito di condividere anche con gli altri la gioia che abbiamo ricevuto. Certamente, sono molti attualmente coloro che si sentono attratti dalla figura di Cristo e desiderano conoscerlo meglio. Percepiscono che Egli è la risposta a molte delle loro inquietudini personali. Ma chi è Lui veramente? Come è possibile che qualcuno che ha vissuto sulla terra tanti anni fa abbia qualcosa a che fare con me, oggi?Nel Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Mt 16,13-20) vediamo descritti due modi distinti di conoscere Cristo. Il primo consisterebbe in una conoscenza esterna, caratterizzata dall’opinione corrente. Alla domanda di Gesù: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?», i discepoli rispondono: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Vale a dire, si considera Cristo come un personaggio religioso in più di quelli già conosciuti. Poi, rivolgendosi personalmente ai discepoli, Gesù chiede loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro risponde con quella che è la prima confessione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». La fede va al di là dei semplici dati empirici o storici, ed è capace di cogliere il mistero della persona di Cristo nella sua profondità.

Però la fede non è frutto dello sforzo umano, della sua ragione, bensì è un dono di Dio: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne, né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli». Ha la sua origine nell’iniziativa di Dio, che ci rivela la sua intimità e ci invita a partecipare della sua stessa vita divina. La fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, bensì suppone una relazione personale con Lui, l’adesione di tutta la persona, con la propria intelligenza, volontà e sentimenti alla manifestazione che Dio fa di se stesso. Così, la domanda «Ma voi, chi dite che io sia?», in fondo sta provocando i discepoli a prendere una decisione personale in relazione a Lui. Fede e sequela di Cristo sono in stretto rapporto. E, dato che suppone la sequela del Maestro, la fede deve consolidarsi e crescere, farsi più profonda e matura, nella misura in cui si intensifica e rafforza la relazione con Gesù, la intimità con Lui. Anche Pietro e gli altri apostoli dovettero avanzare per questo cammino, fino a che l’incontro con il Signore risorto aprì loro gli occhi a una fede piena.

Cari giovani, anche oggi Cristo si rivolge a voi con la stessa domanda che fece agli apostoli: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispondetegli con generosità e audacia, come corrisponde a un cuore giovane qual è il vostro. Ditegli: Gesù, io so che Tu sei il Figlio di Dio, che hai dato la tua vita per me. Voglio seguirti con fedeltà e lasciarmi guidare dalla tua parola. Tu mi conosci e mi ami. Io mi fido di te e metto la mia intera vita nelle tue mani. Voglio che Tu sia la forza che mi sostiene, la gioia che mai mi abbandona.

Nella sua risposta alla confessione di Pietro, Gesù parla della Chiesa: «E io a te dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Che significa ciò? Gesù costruisce la Chiesa sopra la roccia della fede di Pietro, che confessa la divinità di Cristo.

Sì, la Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla «sua» Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr 1Cor 12,12). La Chiesa non vive di se stessa, bensì del Signore. Egli è presente in mezzo ad essa, e le dà vita, alimento e forza.

Cari giovani, permettetemi che, come Successore di Pietro, vi inviti a rafforzare questa fede che ci è stata trasmessa dagli Apostoli, a porre Cristo, il Figlio di Dio, al centro della vostra vita. Però permettetemi anche che vi ricordi che seguire Gesù nella fede è camminare con Lui nella comunione della Chiesa. Non si può seguire Gesù da soli. Chi cede alla tentazione di andare «per conto suo» o di vivere la fede secondo la mentalità individualista, che predomina nella società, corre il rischio di non incontrare mai Gesù Cristo, o di finire seguendo un’immagine falsa di Lui.

Aver fede significa appoggiarsi sulla fede dei tuoi fratelli, e che la tua fede serva allo stesso modo da appoggio per quella degli altri. Vi chiedo, cari amici, di amare la Chiesa, che vi ha generati alla fede, che vi ha aiutato a conoscere meglio Cristo, che vi ha fatto scoprire la bellezza del suo amore. Per la crescita della vostra amicizia con Cristo è fondamentale riconoscere l’importanza del vostro gioioso inserimento nelle parrocchie, comunità e movimenti, così come la partecipazione all’Eucarestia di ogni domenica, il frequente accostarsi al sacramento della riconciliazione e il coltivare la preghiera e la meditazione della Parola di Dio.

Da questa amicizia con Gesù nascerà anche la spinta che conduce a dare testimonianza della fede negli ambienti più diversi, incluso dove vi è rifiuto o indifferenza. Non è possibile incontrare Cristo e non farlo conoscere agli altri. Quindi, non conservate Cristo per voi stessi! Comunicate agli altri la gioia della vostra fede. Il mondo ha bisogno della testimonianza della vostra fede, ha bisogno certamente di Dio. Penso che la vostra presenza qui, giovani venuti dai cinque continenti, sia una meravigliosa prova della fecondità del mandato di Cristo alla Chiesa: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). Anche a voi spetta lo straordinario compito di essere discepoli e missionari di Cristo in altre terre e paesi dove vi è una moltitudine di giovani che aspirano a cose più grandi e, scorgendo nei propri cuori la possibilità di valori più autentici, non si lasciano sedurre dalle false promesse di uno stile di vita senza Dio.

Cari giovani, prego per voi con tutto l’affetto del mio cuore. Vi raccomando alla Vergine Maria, perché vi accompagni sempre con la sua intercessione materna e vi insegni la fedeltà alla Parola di Dio. Vi chiedo anche di pregare per il Papa, perché come Successore di Pietro, possa proseguire confermando i suoi fratelli nella fede. Che tutti nella Chiesa, pastori e fedeli, ci avviciniamo ogni giorno di più al Signore, per crescere nella santità della vita e dare così testimonianza efficace che Gesù Cristo è veramente il Figlio di Dio, il Salvatore di tutti gli uomini e la fonte viva della loro speranza.

Amen




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23 agosto 2011

Benedetto e i «suoi» giovani
Il segno che resta



«Restano loro, resto anch’io». Il senso della battuta con la quale il Papa, sorridente e imperturbabile, ha declinato sotto il diluvio di sabato notte a Cuatro Vientos la ragionevole proposta di attendere nel retropalco che spiovesse, riferito dal portavoce vaticano padre Lombardi, è la sintesi perfetta di un momento che resterà scolpito nel pontificato di Joseph Ratzinger e rivela il punto di svolta maturato a Madrid nel suo legame con i giovani. Ma dentro l’immagine indimenticabile del Pontefice precariamente difeso da un muro di ombrelli che resiste dentro l’uragano di vento e pioggia, acclamato da un milione e mezzo di ragazzi zuppi e festanti, c’è anche molto di più. Benedetto ha fatto suoi i giovani della Giornata mondiale madrilena prima ancora di arrivare: in Spagna si è solo rivelato al mondo l’amore di una generazione che vede in questo Papa, e nella Chiesa maestra e amica che egli esprime con la sua semplice presenza, il suolo affidabile su cui tentare passi e percorsi di un tempo d’incertezze senza precedenti. La persona e la parola di Ratzinger aiutano a colmare quel che manca a questa gioventù vulnerabile e precaria, che però possiede l’identico desiderio di gioia e di verità di ogni nuova nidiata di uomini e donne, semmai moltiplicato dal congiurare di circostanze ostili: l’economia in crisi, la cultura relativista, un mondo adulto inaffidabile, il dilagare di nuove ideologie utilitariste e scettiche, tutto legno fradicio e inservibile per chi vuole dare a casa ai propri sogni.

L’imprevedibile ondata di affetto che ha sostenuto ogni passo del Papa a Madrid è il segno di una sintonia maturata nel tempo, condizione necessaria per consentire a Benedetto XVI di depositare intatta nei cuori dei due milioni di giovani cristiani riuniti a Cuatro Vientos (tanti erano infine alla Messa domenicale conclusiva) e a tutti gli altri di ogni dove che quei ragazzi hanno rappresentato in terra spagnola la chiamata di Cristo, il «vieni e seguimi» che risuona inesauribile senza aver perso un’oncia di fascino. I giovani sentono che non è un’autorità morale tra le altre che parla, che dentro quella figura dolce e apparentemente fragile è il Signore stesso a rivolgersi loro. Il Papa mostra ciò che lo ispira e lo anima, e questo accade anche grazie a una visione soprannaturale di ogni più piccolo episodio che lo rivela per un uomo interamente di Dio. Ai giovani parlano i segni, e ai giovani – spesso diffidenti verso tutto e tutti – il messaggio di Benedetto XVI arriva ormai a destinazione persino prima delle sue parole. «Come questa notte, con Cristo potrete sempre affrontare le prove della vita. Non lo dimenticate!». L’uragano di vento e pioggia sabato notte non è stato un contrattempo del quale rammaricarsi, ma in quest’uomo integralmente evangelico si è tramutato all’istante nel magnete col quale attrarre la domanda inespressa dei giovani davanti alla provocazione della Gmg 2011: ma come faccio a radicare questa mia fragile vita in Cristo, a stare saldo nella fede quando tutto attorno a me mi strappa via dal cristianesimo per farmi volare dentro il nulla? La risposta di Benedetto arriva insieme alla pioggia, si appiccica alla pelle. E quindi evviva la tempesta, il sacco a pelo si asciugherà, ma adesso bisogna esultare con quest’uomo che è un regalo di Dio per la gioventù del 2011 (e per gli adulti che sgranano gli occhi sbalorditi per la sopportazione allegra di privazioni d’ogni tipo nei giorni di Madrid): resta con noi, Santo Padre, non dar retta a chi ti dice di tenerti al riparo, affronta le altissime onde delle nostre domande, accompagnaci dentro il buio di uno sgomento che ci divora la speranza, ora sappiamo che guardando la Chiesa traspare già una risposta. Davvero c’è da essere infinitamente grati al beato Giovanni Paolo II per l’intuizione di queste Giornate mondiali nelle quali i giovani incontrano la fede così com’è, e scorgono una vita diversa, trasformata, capace di capovolgere la sintassi del mondo. Eccomi, Signore, cosa vuoi da me?

Stando dentro l’immensa folla di volti e di storie raccolta domenica mattina a Cuatro Vientos, la papamobile che in un tripudio di festa solcava il campo di volo è parsa a un tratto la barca di Pietro che getta ancòra le reti sulla parola del Maestro. Ognuno fissato con amore, nessuno anonimo. Così la tempesta non fa più paura.


Francesco Ognibene

da L'Avvenire


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30/08/2011 12:45


ANGELUS

«Seguire il Signore sulla strada della Croce»


Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di oggi, Gesù spiega ai suoi discepoli che dovrà «andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). Tutto sembra capovolgersi nel cuore dei discepoli! Com’è possibile che «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16), possa patire fino alla morte? L’apostolo Pietro si ribella, non accetta questa strada, prende la parola e dice al Maestro: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (v. 22). Appare evidente la divergenza tra il disegno d’amore del Padre, che giunge fino al dono del Figlio Unigenito sulla croce per salvare l’umanità, e le attese, i desideri, i progetti dei discepoli. E questo contrasto si ripete anche oggi: quando la realizzazione della propria vita è orientata solamente al successo sociale, al benessere fisico ed economico, non si ragiona più secondo Dio, ma secondo gli uomini (v. 23). Pensare secondo il mondo è mettere da parte Dio, non accettare il suo progetto di amore, quasi impedirgli di compiere il suo sapiente volere. Per questo Gesù dice a Pietro una parola particolarmente dura: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo» (ibid.). Il Signore insegna che «il cammino dei discepoli è un seguire Lui, [andare dietro a Lui], il Crocifisso. In tutti e tre i Vangeli spiega tuttavia questo seguirlo nel segno della croce … come il cammino del “perdere se stesso”, che è necessario per l’uomo e senza il quale non gli è possibile trovare se stesso» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 333).

Come ai discepoli, così anche a noi Gesù rivolge l’invito: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). Il cristiano segue il Signore quando accetta con amore la propria croce, che agli occhi del mondo appare una sconfitta e una “perdita della vita” (cfr vv. 25-26), sapendo di non portarla da solo, ma con Gesù, condividendo il suo stesso cammino di donazione. Scrive il Servo di Dio Paolo VI: “Misteriosamente, il Cristo stesso, per sradicare dal cuore dell'uomo il peccato di presunzione e manifestare al Padre un'obbedienza integra e filiale, accetta … di morire su di una croce” (Es. ap. Gaudete in Domino (9 maggio 1975), AAS 67, [1975], 300-301). Accettando volontariamente la morte, Gesù porta la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità. San Cirillo di Gerusalemme commenta: «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (Catechesis Illuminandorum XIII,1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B).

Cari amici, affidiamo la nostra preghiera alla Vergine Maria e anche a Sant’Agostino, di cui oggi ricorre la memoria, perché ciascuno di noi sappia seguire il Signore sulla strada della croce e si lasci trasformare dalla grazia divina, rinnovando – come dice San Paolo nella liturgia di oggi - il modo di pensare «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).



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26/11/2011 17:04


26 novembre 2011

AGLI OPERATORI SANITARI



«Il calvario di Giovanni Paolo II esempio per affrontare il dolore»


"Custodire e promuovere la vita, in qualunque stadio e in qualsiasi condizione si trovi". È l'esigenza sottolineata da Benedetto XVI, nel corso dell'udienza ai partecipanti alla conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari. Il Papa esorta a "riconoscere la dignità e il valore di ogni singolo essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio e chiamato alla vita eterna" e ricorda che "il servizio alla persona malata nel corpo e nello spirito costituisce un costante impegno di attenzione e di evangelizzazione per tutta la comunità ecclesiale". Invita inoltre a "testimoniare l'azione salvifica di Dio, il suo amore per l'uomo e per il mondo, che abbraccia anche le situazioni più dolorose e terribili" tramite "il servizio di accompagnamento, di vicinanza e di cura ai fratelli ammalati, soli, provati spesso da ferite non solo fisiche ma anche spirituali e morali".

Osserva ancora Benedetto XVI: "Il mistero del dolore sembra offuscare il volto di Dio, rendendolo quasi estraneo o, addirittura, additandolo quale responsabile del soffrire umano; ma gli occhi della fede sono capaci di guardare in profondità questo mistero. Dio si è incarnato, si è fatto vicino all'uomo, anche nelle sue situazioni più difficili; non ha eliminato la sofferenza, ma nel Crocifisso risorto, nel figlio di Dio che ha patito fino alla morte e alla morte di croce, Egli rivela che il suo amore scende anche nell'abisso più profondo dell'uomo, per dargli speranza".

Il pontefice ricorda, a tal proposito, che "questa visione del dolore e della sofferenza illuminata dalla morte e dalla risurrezione di Cristo ci è stata testimoniata dal lento calvario che ha segnato la vita del beato Giovanni Paolo II. La fede ferma e sicura ha pervaso la sua debolezza fisica, rendendo la sua malattia, vissuta per amore di Dio e della Chiesa e del mondo, una concreta partecipazione al cammino di Cristo fin sul Calvario".



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01/12/2011 18:03




Il valore della preghiera nella catechesi del Papa

Quella finestra che fa entrare il cielo



Ieri, il Santo Padre ha aperto il ciclo delle catechesi d’Avvento, guardando a Gesù, alla sua preghiera «che attraversa tutta la sua vita, come un canale segreto che irriga l’esistenza». Sin dall’inizio della sua vita pubblica, sulle rive del Giordano, Gesù dopo aver ricevuto il battesimo avvertì l’esigenza di pregare, di entrare in intima comunione col Padre, quasi a rimarcare che nessun gesto sulla terra può avere significato se non è sostenuto dal Cielo. Potrebbe apparire strano che il Figlio di Dio sentisse il bisogno di pregare, eppure, spiega Benedetto XVI, «proprio questo 'stare in preghiera', in dialogo con il Padre illumina l’azione che ha compiuto insieme a tanti del suo popolo, accorsi alla riva del Giordano». È di fatto l’intensa e personale preghiera di Gesù che sacramentalizza quel rito di purificazione a cui si sottoponevano i seguaci del Battista. Non è un caso che solo dopo la preghiera del Maestro, «il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo» (Lc 3, 21-22). Certamente, come Figlio dell’Uomo, ricorda il Papa, Gesù «ha imparato a pregare da sua Madre e dalla tradizione ebraica» ma la sua preghiera rivela qualcosa di più, «raccogliendosi in preghiera, Gesù mostra l’intimo legame con il Padre che è nei Cieli, sperimenta la sua paternità, coglie la bellezza esigente del suo amore, e nel colloquio con il Padre riceve la conferma della sua missione». Il richiamo di Benedetto XVI al Gesù orante, che nella preghiera lega la terra al Cielo, suona come una provocazione in questo tempo in cui l’uomo del fare si sente sopraffatto dagli eventi, dalla crisi economica, dai mercati impazziti. In questo nostro mondo «chiuso all’orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio» il Papa invita i cristiani ad essere testimoni di preghiera per insegnare all’umanità smarrita, in cerca di senso, a ritrovare se stessa nel dialogo con l’Alto. Chiamato a dare speranza in un tempo in cui sembra svanire ogni speranza di futuro, il Vicario di Cristo, sulle orme del Maestro, ritrova nella forza della preghiera il coraggio della fede, il coraggio di guardare avanti con fiducia nell’attesa, propria dell’Avvento, del Signore che viene.

Se Gesù, come narrano i Vangeli, più volte si ritirava in preghiera nel deserto, sul monte, nella notte, in ogni momento in cui la solitudine gli consentiva di ascoltare la voce del Padre, ogni uomo deve saper ritrovare nella propria interiorità la sua vera dimensione. In questo tempo in cui nuovi poveri bussano alle porte delle nostre chiese, certamente siamo tutti chiamati alla solidarietà concreta, all’efficienza, all’operosità per dare riposte a quanti hanno bisogno di aiuto, ma il Papa sente di ricordare alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà che solo l’intimo legame con Dio può dare valore al nostro agire. Dalle rive del Giordano a quella terribile notte d’angoscia nell’Orto degli Ulivi, Gesù ci ha insegnato a rifugiarci nella preghiera, a rivolgerci a Dio come al più tenero dei padri, a dire Abbà, Padre, «Padre nostro che sei nei cieli».

La riflessione del Santo Padre sulla preghiera sembra ricordare all’uomo di oggi, pieno di sé, le parole di Gesù: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5), perché solo nell’intimo e costante dialogo con Dio «possiamo aprire finestre verso il Cielo».


Gennaro Matino

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21/01/2012 20:47

20 gennaio 2012

SANTA SEDE




Il Papa approva le celebrazioni

del Cammino neocatecumenale



​Ieri la Santa sede, attraverso un decreto del Pontificio Consiglio per i laici, ha comunicato l’approvazione delle celebrazioni contenute nel Direttorio catechistico del Cammino neocatecumenale, dopo aver avuto il parere favorevole della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. «Un momento storico», ha commentato Kiko Argüello, iniziatore del Cammino, assieme a Carmen Hernández.
È importante capire infatti che il Neocatecumenato come recita l’articolo 5 del suo Statuto è «uno strumento al servizio dei vescovi per la riscoperta dell’iniziazione cristiana da parte degli adulti battezzati». Infatti l’Ordo Initiationis Christianae Adultorum pubblicato nel 1972 sulla scia della riscoperta del catecumenato fatta dal Concilio Vaticano II, suggerisce al capitolo IV l’utilizzazione della catechesi e di alcuni riti propri dell’iniziazione per la conversione e maturazione nella fede non solo per i non battezzati, ma anche per quei cristiani che si siano allontanati dalla Chiesa o non siano sufficientemente evangelizzati.
Il Cammino neocatecumenale è arrivato a riscoprire tutto ciò attraverso una prassi di oltre 40 anni a partire dalle esperienze degli ultimi, i baraccati di Palomeras Altas a Madrid nel 1964. È lì che si è cominciato a sperimentare che il kerygma, cioè l’annuncio della resurrezione di Cristo, aveva il potere di trasformare le persone. Così è stata avviata una prassi catechetica che la Chiesa nel 2008, con l’approvazione definitiva degli Statuti, ha riconosciuto come «un itinerario di formazione cattolica, valida per la società e per i tempi odierni».
La Chiesa ha disposto di studiare il contenuto concreto della predicazione del Cammino, strutturata in varie fasi come il catecumenato della Chiesa dei primi secoli, e nel 2011, dopo un attentissimo studio portato avanti per vari anni dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha approvato il Direttorio del Cammino. Le varie tappe del Neocatecumenato sono scandite e si concludono con celebrazioni che, come ha detto Benedetto XVI, «non sono strettamente liturgiche, ma fanno parte dell’itinerario di crescita nella fede». Tali momenti sono contenuti nel Direttorio. Pur essendo stata approvato il suo contenuto dottrinale, la Congregazione del culto divino e la disciplina dei sacramenti ha voluto esaminarlo da un punto di vista liturgico. «E adesso viene il sigillo – osserva Kiko Argüello – che dice che anche queste celebrazioni, che marcano le tappe di crescita dell’itinerario di maturazione dell’uomo nuovo, sono magnifiche e sono veramente ispirate, aiutano l’uomo a crescere nella fede e a unirsi a Gesù Cristo, a farlo cristiano».
Dunque ieri è stato un giorno di grande felicità per il Cammino. «Dopo tanti anni come non possiamo essere contenti – osserva il suo iniziatore – e grati a Dio che, dopo tante sofferenze e tanto lavoro in tutto il mondo, la Chiesa riconosca ufficialmente che questa iniziazione cristiana è valida per la costruzione di un cristiano, di un uomo nuovo. Valida per fare un cristiano adulto. Noi questo cristiano lo inseriamo in una comunità cristiana, perché oggi bisogna dare i segni che nell’antichità chiamavano i pagani alla fede, quando gridavano "guardate come si amano i cristiani"».


Pier Luigi Fornari - L'Avvenire.it

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24/02/2012 17:21



Il Papa denuncia il carrierismo nella Chiesa

“È contro di me e non mi rende felice”


Incontrando il clero romano Benedetto XVI ha parlato a braccio e ha usato una inconsueta prima persona per ricordare ai Sacerdoti “l'umiltà”, che “mi porta a non volere apparire, ma a fare quel che Dio ha pensato di me e per me”. “La superbia è la radice di tutti i peccati”. E tra questi il Papa cita “la ricerca del potere”.


CITTA' DEL VATICANO 23 febbraio 2012 (Google news) - Se il Vaticano fatica a scrollarsi di dosso veleni, il Papa fa di tutto per richiamare il clero alla sua missione, invitando allo stesso tempo i fedeli a distinguere il messaggio della Chiesa al di là della fallibilità umana. Così, se una settimana fa Papa Ratzinger aveva ricordato che “Gesù insegna a perdonare i nemici”, oggi ha ribadito un fermo “no” alle ambizioni personali e al carrierismo nella Chiesa, usando modalità inconsuete.

Durante l'incontro con il clero della diocesi di Roma, nel tradizionale appuntamento di inizio Quaresima, Benedetto XVI ha parlato spesso a braccio, usando una ben poco consueta prima persona. Altra variante: negli anni scorsi Papa Ratzinger aveva preferito un dialogo con domande dei Sacerdoti presenti, stavolta si è rivolto ai parroci romani nell'Aula Paolo VI attraverso una lectio divina su un passaggio della lettera agli Efesini.

Dobbiamo liberarci, ha detto Papa Ratzinger, di “questa vanagloria che alla fine -ha ammonito, passando alla prima persona- è contro di me e non mi rende felice”. “Debbo saper accettare la mia piccola posizione nella Chiesa”, ha continuato il Papa, raccomandando ai Sacerdoti la parola chiave: “Umiltà, che mi porta a non volere apparire, ma a fare quel che Dio ha pensato di me e per me, fa parte del realismo cristiano”.

A questo punto, l'affondo del Pontefice: “La superbia è arroganza, è la radice di tutti i peccati, la ricerca del potere, apparire agli occhi degli altri, non preoccuparsi di piacere a se stessi e a Dio.

Essere cristiani vuol dire superare questa tentazione, essere veri, sinceri, realisti.

L'umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare che la piccolezza ci fa grandi. Riconoscere che io sono unico, un pensiero di Dio”.

“Accettare me stesso, accettare l'altro -ha aggiunto Ratzinger- sono cose che vanno insieme, è questa la grande sintonia della Chiesa e della Creazione: che siamo uno diverso dall'altro. Essendo umile, ho la libertà di essere in contrasto con qualche mio parente” in nome “della libertà della verità”. “Il Signore -ha quindi invocato Papa Ratzinger, rivolgendosi al clero della diocesi di Roma- ci aiuti a essere costruttori della libertà della Chiesa”.


Benedetto XVI si è poi soffermato sulla tentazione sempre più diffusa di non seguire tutte le indicazioni della Chiesa e di sentirsi ugualmente a posto con la coscienza. E lo ha fatto criticando l'espressione “cattolici adulti”, che un certo successo ha avuto nel mondo politico italiano.

“Si dice -ha spiegato Ratzinger- fede adulta emancipata dal Magistero, come se, in quanto cresciuto, debbo emanciparmi dalla madre”.

Ma, ha osservato Papa Benedetto XVI, “il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, della dittatura dei mezzi di comunicazione, della opinione comune, del modo di cioè che tutti pensano e vogliono”
.

Per il Pontefice, solo “liberarsi da questa dittatura è liberarsi davvero”. “Dobbiamo -ha esortato rivolto ai parroci romani- essere emancipati in questo senso, con una fede realmente adulta che vede e fa vedere la vera realtà adulta in comunione con Cristo. Essere veri nella carità e nella verità”.

Un grande problema della Chiesa attuale è la mancanza di conoscenza della fede”, quello che i Cardinali riuniti venerdì scorso nel vertice pre-Concistoro hanno definito “analfabetismo religioso”, ha sottolineato Benedetto XVI, spiegando che “con questo analfabetismo non può crescere l'unità” dei cristiani.

Uno dei compiti del prossimo Anno della Fede, ha aggiunto, sarà quindi “fare il possibile per un rinnovamento catechistico, perché la fede sia conosciuta e cresca l'unità nella verità”. È anche attraverso una maggiore conoscenza del Catechismo, secondo Ratzinger, che nell'Anno della Fede si rinnoverà la missione del Concilio.

Benedetto XVI ha invitato i Sacerdoti a comportarsi “in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”: sappiate trovare “la vera strada, quella del Signore e guidare gli altri”, ha detto. “La grande sofferenza della Chiesa, in Europa e in Occidente, è la mancanza di vocazioni sacerdotali. Per questo bisogna porsi in ascolto della chiamata del Signore”.






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03/03/2012 07:44



IL MESSAGGIO DI BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA
«PRESTIAMO ATTENZIONE GLI UNI AGLI ALTRI»



Fratelli e sorelle,

la Quaresima ci offre ancora una volta l’opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l’aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E’ un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l’accesso a Dio. Il frutto dell’accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza»

(v. 23) nell’attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l’attenzione all’altro, la reciprocità e la santità personale.

1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l’invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein, che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell’occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l’apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell’altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell’amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell’altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell’altro, desiderando che anch’egli si apra alla

logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità. La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui. L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l’esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all’empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L’incontro con l’altro e l’aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna – elenchein – è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recriminazione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.

Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l’utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l’altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre» (1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo. La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l’elemosina – tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno – si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all’unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell’altro l’azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.

Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L’attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell’alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell’amore e delle buone opere.

Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l’invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).

Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

BENEDICTUS PP. XVI



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23/01/2013 22:47

Ciao a tutti ! Mi chiamo Marco sono nuovo del Forum !
Ciao a tutti !
Mi chiamo Marco abito a Tortona(AL) e sono nuovo del forum, mi sembra comunque interessante.
Ciao !
Marco ;-)
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27/01/2013 15:20


Ciao Marco!
Non mi sarei aspettata di trovare il post di saluto di un nuovo visitatore qui, in questo thread [SM=g27987]
Lieta di averti letto. Se ti fa piacere torna quando vuoi!

Aurora



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11/02/2013 17:11


"Dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma"



di Benedetto XVI


Carissimi Fratelli,

vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa.

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino.

Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.

Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.

Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice.

Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Dal Vaticano, 10 febbraio 2013

BENEDICTUS PP XVI

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11/02/2013 17:13


Grazie con tutto il cuore, Santo Padre!!


Aurora


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Il testamento del saggio timoniere

I passaggi centrali dell'ultimo discorso di papa Joseph Ratzinger, mercoledì 27 febbraio 2013. "Non porto più la potestà dell'officio, ma resto nel recinto di san Pietro"

di Benedetto XVI




Cari fratelli e sorelle, […] in questo momento il mio animo si allarga per abbracciare tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le "notizie" che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo. […]

In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e vive nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia.

Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto ferma questa certezza che mi ha sempre accompagnato.

In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai. E il Signore mi ha veramente guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza.

È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa e il Signore sembrava dormire.

Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore.

Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano.

In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: "Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio d’avermi creato, fatto cristiano…". Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo! […]

In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi.

Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre: chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della loro comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.

Il “sempre” è anche un “per sempre”: non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.

Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che voglio vivere sempre.

Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo successore dell’apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito. [...]

__________



_________Aurora Ageno___________
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