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Notizie dai giornali (cartacei o del web)- 67° - Poche sorprese. Francesco è fatto così

Ultimo Aggiornamento: 04/04/2013 18:23
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8 luglio 2010

LEGGENDA NERA

Pave the Way: 200.000 ebrei salvi grazie a Pio XII


«Papa Pio, etichettato come "Papa di Hitler" a causa del suo silenzio durante l'Olocausto, avrebbe organizzato l'esodo di circa 200.000 ebrei provenienti dalla Germania appena tre settimane dopo la Kristallnacht, quando migliaia di ebrei furono arrestati e inviati nei campi di concentramento»: è questo l'incipit di un servizio del Daily Telegraph di martedì 6 luglio nel quale si dà conto di una ricerca condotta negli archivi vaticani dallo storico tedesco Michael Hesemann per conto della "Pave The Way Foundation", gruppo interconfessionale con base statunitense. Il presidente della "Pave the Way Foundation", Elliot Hershberg, ha dichiarato: «Crediamo che molti ebrei che sono riusciti a lasciare l'Europa non possano avere avuto alcuna idea che i loro visti e i documenti di viaggio siano stati ottenuti attraverso questi sforzi del Vaticano». La sua conclusione: «Tutto ciò che abbiamo trovato finora sembra indicare che l'immagine negativa di papa Pio XII sia errata». Anche il quotidiano israeliano Haaretz, nell'edizione del 7 luglio, riconosce che «la nuova ricerca mostra che la percezione di Pio XII come "Papa di Hitler" può essere storicamente errata».Si collega a questi riconoscimenti un articolo odierno dell'Osservatore Romano, che inizia citando anch'esso il presidente della "Pave the Way Foundation" Hershberg: «Chi esamina la grandissima quantità di documenti, testimonianze, evidenze provate e dimostrabili, deve necessariamente concludere che Papa Pio XII fu un affettuoso, solidale amico del popolo ebreo». «Da ebreo - continua Hershberg - conosco bene l'antisemitismo, e non c'è traccia di pregiudizio antiebraico nella vita di Eugenio Pacelli». Si rimarca quindi il ruolo della disinformazione innescata da Rolf Hochhut con la sua opera "Il Vicario" nell'accreditare un'immagine totalmente falsata di Pio XII e del suo atteggiamento nei confronti del nazismo, nell'assoluta noncuranza delle tante testimonianze che dimostrano viceversa l'affettuosa vicinanza di Papa Pacelli al mondo ebraico.


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7 agosto 2010

A Milano i pugni di Oleg, la morte di Emilu

Dove eri Dio? Ma nella tempesta Tu ci parli


Dov’eri ieri mattina, Dio? Non a Milano, in viale Abruzzi, dove le mani di Oleg, ragazzo di 25 anni, hanno spappolato la vita di Emilu, donna di 41 anni con l’unica colpa passare da lì. Te l’ho chiesto spesso in questi giorni, Dio. Dove eri quando l’impiegato in odore di licenziamento ha sparato ai suoi colleghi? E dove, quando il ragazzo laureato ha sparato alla fidanzata sedicenne che lo aveva lasciato? Tutte le volte che ti faccio questa domanda, Dio, mi ricordo il consiglio di un amico: «Chiediti piuttosto: dov’era l’uomo?».

Dov’era l’uomo in Oleg disperato per una lite con la fidanzata? Dove si era andato a nascondere il suo spirito, quella cosa che consente di vedere in un’altra persona qualcuno e non qualcosa, di sentirne la vita così come sentiamo la nostra e quella di chi amiamo? Non c’era l’uomo.
Ma questo non mi basta. Perché l’uomo sparisce e il male dilaga sull’innocente? Ritorno al sospetto di prima, divenuto quasi certezza: l’uomo non c’era perché non c’eri tu, Dio.

In viale Gran Sasso alle 8 non c’eri. Questa è la verità: dove Caino uccide Abele, tu non ci sei. Sparisci quando in noi si fa strada l’invidia contro qualcuno che ha qualcosa che ci è stato tolto o non abbiamo. Il male che crediamo di aver subito scatena una fame cieca di punire chi quel qualcosa ce l’ha ancora. Questa è l’origine della violenza, di ogni violenza: l’invidia primordiale del «sarete come lui se mangerete». Non ci sei Dio tutte le volte che do spazio a questa invidia primordiale, tutte le volte che tolgo la vita (fisicamente o moralmente) a qualcuno perché ha qualcosa che io non ho: salute, amore, soldi, lavoro... Quando diminuisco l’uomo, lì Dio non c’è. Il Dio che vorrei, interventista, quello che evita il male che l’uomo vuole compiere, non c’è, perché è stato cacciato già da un pezzo. Mi piacerebbe un Dio meno rispettoso della libertà umana, che salvasse Abele, invece di dire a Caino: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo». Ma Dio non l’ho inventato io.

Però non mi rassegno e glielo chiedo di nuovo: dov’eri? Domandare è guardare meglio. E pensando ad Abele, scopro che c’eri, ma non dove guardavo. Non dal lato dell’onnipotenza, non dal lato della forza, ma dal lato meno visibile, dal lato fragile. C’eri in un altro modo: nella vittima innocente. Ecco dov’eri.

Emilu è l’innocente crocifissa dai pugni del suo carnefice, che incapace di guarire da solo dalla violenza primordiale, perdonando la donna che lo ha lasciato, punisce un’altra donna innocente in modo cruento. Non è la risposta che mi riporta indietro Emilu, ma è l’unica risposta che non mi lascia solo con il male cieco, il cui unico limite e argine è Cristo, che c’era, quella volta sì, sulla croce, faccia a faccia con il male, una volta per tutte e ha vinto.

Non ci sono soluzioni. In passato le cercavo usando la stessa moneta: cercando i colpevoli contro cui scagliarmi, riproducendo il gesto violento. Ma cercare dei colpevoli non è un bel modo di vivere. La vita non è un giallo, ma piuttosto un viaggio su una barca a vela: con dei bellissimi posti da vedere e a lieto fine. Ogni tanto ci sono le tempeste e la paura di affondare. Quello della tempesta è l’unico momento in cui Dio parla con noi: «Il Signore parlò a Giobbe da dentro il turbine». La parole che Dio dice non sono tanto convincenti, ma a Giobbe non interessano quelle. A lui interessa aver finalmente trovato ciò che il suo cuore cercava: parlare con Dio. I suoi amici e sua moglie non ci riescono. Solo lui che sta dentro il turbine vede Dio: «Allora Giobbe disse: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Per questo mi ricredo».

Lo sgomento del male senza senso ci costringe al faccia a faccia con Dio e solo quel fiducioso faccia a faccia, seppur nel chiaroscuro della tempesta, ci ricorda che il bene è onnipotente. E questo ci salva da quel male.


Alessandro D'Avenia - L'Avvenire



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18/08/2010 20:46


18 agosto 2010

ROMA

Il fisico che mise all'«angolo» i quark


Nicola Cabibbo, scomparso a Roma lunedì sera all’età di 75 anni (era nato a Roma il 10 aprile 1935), apparteneva a quella generazione di fisici che ha dato contributi fondamentali alla fisica delle particelle elementari; un campo ostico che difficilmente si presta alla grande divulgazione, ma che gioca un ruolo importantissimo nella comprensione di molti fenomeni.

Cabibbo, docente di fisica delle particelle elementari all’Università di Roma, era un nome molto noto ai fisici di tutto il mondo, che vedevano in lui un vero pioniere nel suo campo. Laureatosi in fisica a soli 23 anni con Bruno Touschek, il padre del primo acceleratore italiano di particelle costruito a Frascati, già nel 1961 pubblica un articolo sulla sezione d’urto, un lavoro fondamentale per chi studia i fenomeni di collisione delle particelle elementari, e due anni dopo firma sulla prestigiosa rivista Physical Review Letters l’articolo che lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo dove introduceva una famosa costante, conosciuta oggi come «angolo di Cabibbo», per spiegare certe trasformazioni di particelle.

Ma il nome del fisico italiano è finito anche nella cosiddetta «Matrice di CKM», dove Ckm è l’acronimo dei tre cognomi Cabibbo, Kobayashi e Maskawa. La «matrice di CKM» è un modello che ha consentito di prevedere l’esistenza di sei differenti tipi di quark, i mattoni ultimi della materia che combinandosi in diversi modi formano le particelle elementari (protoni, neutroni, elettroni…). Non a caso il nome di Cabibbo è il primo della «triade»; fu Cabibbo, infatti, coi suoi studi, ad aprire la strada a questo nuovo filone di studi volti alla comprensione dei meccanismi che spiegano l’intima struttura della materia.

Ma grande fu la sorpresa dei fisici, soprattutto italiani, quando si apprese la notizia che la giuria di Stoccolma aveva conferito il Nobel per la fisica ai due ricercatori giapponesi che facevano parte della triade «Ckm», Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, senza la minima menzione alle ricerche di Cabibbo. Qualcuno, probabilmente a ragione, avanzò l’ipotesi che l’esclusione di Cabibbo dal Nobel fosse stata causata dall’essere il fisico italiano il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, della quale faceva parte fin dal 1993. Va anche ricordato che Cabibbo è considerato anche il padre dei super calcolatori Ape (Array Processor Experiment), macchine che attualmente sono in grado di effettuare un miliardo di miliardo di operazioni al secondo! Da uomo di fede Cabibbo considerò sempre con grande equilibrio il rapporto fra scienza e fede, convinto che tra scienza e fede dovesse esserci «rispetto reciproco».

Riteneva, inoltre, che non dovessero essere imposti dei limiti alla ricerca scientifica, ma che occorresse «fare attenzione alle possibili applicazioni e alle implicazioni etiche». E su quest’ultimo punto Cabibbo affermava che, se da un lato le religioni potevano dare gli input sull’etica, dall’altro era importante che la comunità scientifica avesse un ruolo positivo nell’elaborazione della morale. Non nascondeva che certe questioni potevano generare qualche imbarazzo fra religione e ricerca ma, parafrasando una famosa frase che Galilei passò a Cristina di Lorena («L’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarsi come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»), sosteneva che l’uomo deve aspettarsi dalla fede la salvezza e non la spiegazione del mondo. Del resto era anche convinto che la scienza non potesse mettere in difficoltà la fede, perché le scoperte scientifiche sono "vere" e ciò non può essere in contrasto con la creazione. Secondo Cabibbo infine la Chiesa, dopo aver rivolto le proprie attenzioni ai temi dell’evoluzionismo e della biologia, avrebbe dovuto presto confrontarsi anche con la fisica, soprattutto dopo i possibili sviluppi legati al funzionamento del più grande acceleratore di particelle del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra.

E a questo proposito non condivideva la definizione di «particella di Dio» data al famoso «bosone di Higgs» al quale i fisici stanno dando da tempo la caccia. «Chiamare il bosone di Higgs la particella di Dio – commentò Cabibbo – è stata la trovata stravagante di un collega americano, ma con Dio non ha nulla a che fare». Cabibbo ha giocato un ruolo fondamentale anche nella politica della ricerca. Dal 1985 al 1993, infatti, è stato a capo dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn) e sotto la sua presidenza sono stati inaugurati i Laboratori nazionali del Gran Sasso, mentre dal 1993 al 1998 è stato presidente dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. L’attuale presidente dell’Infn, Roberto Petronzio, che fu allievo di Cabibbo, così ha commentato la morte del grande fisico: «Scompare uno scienziato dotato di un pensiero profondo e un grande maestro. Cabibbo è stato fra i protagonisti assoluti della scuola romana di fisica». Per il fisico Giorgio Parisi, uno dei suoi allievi più influenti, «è stato senza dubbio il punto di riferimento di un’intera generazione di fisici.

A livello umano era una persona contagiosa. Si vedeva chiaramente che si divertiva a fare la fisica, che per lui era come se fosse un gioco». Molto significativo anche il commento di Luciano Maiani, presidente del Cnr: «Lavorare con lui era sorprendente. Conosceva tutta la fisica e aveva dimensioni intellettuali pari a quelle di Enrico Fermi». Proprio alcuni giorni fa per i suoi studi sull’«interazione debole» era stata conferita a Cabibbo la Medaglia Dirac, che equivale a un Nobel per la fisica; quasi un risarcimento per quel Nobel mancato che fece gridare allo scandalo. Molti parlarono di «scippo». Ma Cabibbo non offrì nessun commento e anche per questo dimostrò ancora una volta tutta la sua grandezza.


Franco Gabici - L'Avvenire



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20/09/2010 17:23


19 settembre 2010

L'ACCUSA DEL FILOSOFO

Morin, perché non capiamo il Novecento


Il XX secolo ci ha fornito a prezzo del sangue, del terrore e della morte una formidabile esperienza. Ma perché un’esperienza riesca a offrire una lezione, è necessario che dia luogo a una riflessione. L’esperienza chiave del secolo è quella di una reazione a catena, scatenata da una deflagrazione periferica, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, che ha infiammato la guerra europea poi divenuta mondiale. Questa guerra ha fatto nascere il comunismo totalitario, il fascismo italiano, il nazismo che, emerso a sua volta da una crisi economica di una gravità senza precedenti, ha innescato la Seconda guerra mondiale, che ha dato luogo dapprima alla Guerra fredda e in seguito all’implosione dell’Unione Sovietica la quale, aggravando le prospettive future, ha suscitato il dilagare tumultuoso dei nazionalismi.

Gli enormi passi indietro del XX secolo hanno fatto nascere guerre, crisi, nazionalismi, socialismi che hanno generato il nuovo mostro storico del totalitarismo. Il XX secolo ha vissuto l’esperienza di una formidabile religione della salvezza terrena, disintegratasi nella e attraverso la propria realizzazione, palesando che la rivoluzione resuscitava una forma ancora peggiore di sfruttamento di quella che avrebbe preteso di distruggere. Il XX secolo è stato teatro di crisi gigantesche connesse le une alle altre: crisi economiche, crisi della democrazia, crisi dell’Europa.

Dovunque, sotto l’effetto delle crisi e delle guerre, la ricerca di un’altra via storica, o «terza via», è stata distrutta fin dalla sua fase nascente. Ora il pensiero politico, a destra come a sinistra, è ancora incapace di concepire una causalità inter-retroattiva che possa spiegare lo scatenamento reciproco delle reazioni a catena registrate nel XX secolo. Il pensiero politico resta incapace di cogliere al tempo stesso l’unità e la differenza fra i due totalitarismi. Il nazismo, defunto da più di cinquant’anni, non è ancora stato diagnosticato sul serio in profondità; il comunismo non è stato veramente pensato, né come sistema politico poliziesco, né come religione della salute terrena, né – al pari del nazismo – come esperienza antropologica che la dice lunga sull’uomo, sul suo bisogno di fede, sulle sue possibilità di accecamento, sulla sua attitudine a superarsi, a corrompersi e a rinnegare se stesso. Il XX secolo ci ha mostrato – e continua a mostrarci – che uno stesso essere umano può passare dallo stato più inoffensivo a uno stato di assoluto fanatismo, dalla tranquillità alla demenza, e che il secolo della scienza e della ragione operazionale è stato anche il secolo delle illusioni, delle incoscienze e dei deliri.

E, nella fase transitoria delle acque mitologiche che ristagnano oggi nell’Est europeo – mentre un po’ dovunque si risvegliano e si rivelano furori e deliri – chiamiamo realismo l’assenza di pensiero e non vediamo l’abbaglio dello schiacciante pensiero tecno-economico che guida le nostre politiche. Mentre si scatenano nel mondo turbolenze e regressioni di ogni genere, mentre siamo incapaci di percepire il nostro presente, accettiamo le diagnosi unidimensionali della fine della Storia e dello scontro di civiltà. Coloro i quali non vedono la storia di questo secolo che in termini economici e industriali, non si accorgono che la volontà di nazione obbedisce anche – e talvolta principalmente – a bisogni mitologici, religiosi, comunitari che vanno al di là della volontà di industrializzazione. Dimenticano le passioni umane, le follie collettive della nostra Storia.


- Edgar Morin - L'Avvenire



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24/11/2010 18:11

CULTURA

24 novembre 2010

SPOT AI RAGGI X

Tv, l’inganno delle emozioni


Nel 1906 Joseph Conrad, l’autore di Cuore di tenebra, nel racconto "Un anarchico" si «rattrista» per «il moderno sistema della pubblicità» e ne parla come della «dimostrazione del prevalere di quella forma di degradazione mentale chiamata credulità». Poi annota: «In varie parti del mondo civile e selvaggio ho dovuto mandar giù l’estratto di carne 'Bos'. Quello che non sono mai riuscito a mandar giù è la sua pubblicità». Affermazioni che ai giorni nostri risulterebbero intollerabili a qualunque pubblicitario o manipolatore della comunicazione che sia. L’aperta dichiarazione di provare fastidio di fronte alla reclame è infatti un esercizio di libertà, che indica un duplice fallimento del comunicatore: perché l’attuale sistema della comunicazione commerciale e non solo, è costruito per condizionare le scelte dell’individuo; perché per vendere il prodotto la pubblicità deve sedurre. Adesso, evidenzia Anna Olive­rio Ferraris, docente di Psicolo­gia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, nel libro "Chi manipola la tua mente? Vecchi e nuovi per­suasori: riconoscerli per difender­si", edito da Giunti, si ragiona co­me quel tal Patrick Le Lay, diret­tore del primo canale della tv pubblica francese, che su 'Le Monde' dell’11 luglio 2004, rife­rendosi a una certa bibita gassata reclamizzata dalla sua rete, teoriz­za: «Perché un messaggio pubbli­citario sia recepito bisogna che il cervello del telespettatore sia di­sponibile. Le nostre trasmissioni hanno per vocazione quella di renderlo disponibile... Quello che vendiamo alla bibita gas­sata è una frazione di tempo del cervello umano disponibi­le ».

Insomma, professoressa Oli­verio Ferraris, vendono il nostro cervello.
«È il loro obiettivo. Per que­sto i programmi sono fatti in funzione degli sponsor. Soprattutto i cosiddetti con­tenitori, che risultano sempre più stupidi per rendere più inci­siva la pubblicità».

Si dice che la tv ipnotizzi i bambi­ni.
«Anche gli adulti. Sappiamo che nei bambini dopo circa venti mi­nuti davanti alla tv o ad analogo ti­po di comunicazione per immagi­ni, le onde cerebrali si modificano. Da beta diventano alfa, cioè simili a quelle degli stati ipnotici».

Un’inchiesta ha collegato il nume­ro dei televisori in casa con la pro­pensione delle famiglie al consu­mo dei prodotti più pubblicizzati.
«Con tante tv ognuno guarda la sua. E senza potersi confrontare con una persona reale diventa più vulnerabile».

Anche quando si va al super­market dopo un po’ ci si sente fra­stornati. Meglio essere accompa­gnati?
«Tutto nei supermercati è con­cepito per stimolare gli acquisti. Le luci, la musica. Si crea un am­biente uterino, benevolo. E spesso i prodotti cambiano di posto per dare la sensazione di andare a scovarli... come quan­do eravamo cacciatori-raccogli­tori».

Si fanno studi specifici da de­cenni.
«Anche sul modo di far passare gli spot in tv. Ha fatto caso a quelle pubblicità che vengono trasmesse una volta per intero e poi sono rilanciate a spezzoni? Lo fanno perché lo spettatore sia costretto a fare lo sforzo di com­pletare lo spot. Un esercizio m­nemonico, che fissa nelle menti il marchio e le sue atmosfere».

Sono più importanti le atmosfere o il prodotto?
«Le faccio il caso dei detersivi. In fondo sono tutti uguali. Se vuoi vincere la concorrenza devi inven­tarti un logo, uno spot seduttivo, l’atmosfera giusta. Sembra strano, ma è la stessa logica che, per para­dosso, conduce le emittenti a fare in prima serata programmi che si assomigliano tutti».

Nel senso che per sedurre i tele­spettatori tutti puntano su bisogni primari come cibo, paura e sesso?
«In questo modo si pensa di dare alle persone quello che cercano. La concorrenza fra le emittenti punta tutto su questo e la qualità della tv si abbassa progressivamente. An­che i politici utilizzano la stessa tecnica. Con una sintassi elemen­tare dicono quello che la gente si aspetta di sentir dire da loro».

Non servono i contenuti, ma serve la televisione?
«La televisione o qualunque altro media dove l’importante è esserci e arrivare in contemporanea a mi­lioni di persone. In questo modo ognuno può costruirsi un carisma: basta apparire. Pensiamo a certi personaggi dello spettacolo e non solo, che sono ammirati pur con­ducendo una vita riprovevole, pur entrando e uscendo dalla galera, pur essendo dei ricattatori. Acqui­stano popolarità e siccome la mac­china della comunicazione è auto­referenziale, fanno un’intervista con uno e poi li intervistano tutti. Per gli operatori della comunica­zione il modellino preconfeziona­to, il format, funziona sempre».

Più ti emoziono, più ti condiziono. E la verità dei fatti?
«Nella comunicazione per imma­gini non conta la verità, conta l’e­mozione, il sentimento. E siccome tante persone associano i senti­menti e le emozioni che provano con la verità... La nostra civiltà è fatta di persone che in certe condi­zioni si lasciano convincere facil­mente. Basta il colpo di teatro la trovata che crea la giusta atmosfe­ra. I nostri politici lo sanno, così come lo sanno i conduttori televi­sivi più gettonati. Anche il modo di porre le domande condiziona le ri­sposte. I sondaggi in tv sono esem­pi classici di manomissione della verità. Poi nessuno controlla se le promesse sono state mantenute e se le 'verità' sono accertate».

Se conta solo quello che dà emo­zioni vengono a cadere tutti i prin­cipi che reggono la società civile.
«Certamente si favoriscono com­portamenti più impulsivi. Omolo­gati. Anche nel rapporto col sesso. Le gerarchie, le convenzioni, le re­lazioni, tutto quanto è frutto della civiltà e dell’istruzione perde di senso. L’autocontrollo non ha più significato. Le dispute, le divergen­ze si risolvono con la violenza. In tanti cartoni per bambini si ragio­na così. La politica ragiona così».

Come ci difendiamo?
«Non conosco altra difesa che quel­la di far crescere lo spirito critico».

Di fronte a un sistema che mina le radici della democrazia e della no­stra stessa civiltà ci difendiamo con lo spirito critico?
«Bisogna insegnare a valorizzare lo spirito critico. A non accontentarsi di essere cullati. Solo così si acqui­sta l’esperienza necessaria per di­stinguere l’imbonitore dal comu­nicatore onesto. La civiltà non pro­gredisce con le sensazioni, la de­mocrazia non vive solo di emozio­ni. I giovani sono sensibili sulle questioni che hanno a che fare con la libertà. Nel mio lavoro ho visto che sono molto ricettivi quando si spiegano i modi e i motivi di chi li vuole ingannare. E il comporta­mento dell’utente condiziona il comunicatore».

Roberto I. Zanini

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06/12/2010 17:57

LA LEGGENDA POP

Lennon, fragile genio rimpianto

«La cosa più difficile? Affrontare se stessi». Forse bisogna partire da frasi come questa per ragionare davvero su John Lennon trent’anni dopo l’8 dicembre 1980, quando Mark Chapman gli sparò sulla porta di casa a New York. Perché dietro le provocazioni di Lennon c’era fragilità e alle spalle del suo talento un uomo. Troppo spesso cristallizzato in bandiera da sventolare a priori ed assurto a mito moderno fino a banalizzarne le intuizioni in un cocktail di populismo e marketing.

Ma il centro dell’eredità di John Lennon non è nelle provocazioni che più passano gli anni più si scorgono legate alla sua epoca. Ad esempio, non è decisivo tout-court quanto sembri il Lennon dei "bed-in", conferenze stampa pacifiste a letto con Yoko Ono che lo misero in cattiva luce persino alla Casa Bianca, dando il via su di lui ad una letteratura da B-movies di spionaggio periodicamente rilanciata in toni scandalistici. Lì, semmai, contò il dimostrare che tramite la popolarità del rock si poteva – com’egli disse – «vedere la pace strillata sui giornali del mondo».

C’è insomma uno scarto evidente, ma non sempre tenuto da conto, fra certe cose dette od ottenute da Lennon e i modi scelti per farlo. Modi originali, inediti, ma pure discutibili: quando non addirittura pensati a tavolino (fu il caso di Happy Xmas (War is over) nata da uno slogan). Il Lennon degli scritti choccanti, delle canzoni su esperienze di droghe, del connubio voyeuristico con Yoko Ono, tutto questo a guardar bene era esteriorità. Di un Lennon che, grazie a molte di queste faccende, svelò al mondo tra i primi che la musica pop di successo poteva andare al di là di mode patinate alla Elvis, e dire qualcosa di importante.

Perché ci fossero stati solo choc e provocazioni, trent’anni dopo saremmo ancora qui a scrivere di Lennon? Sarebbe qualcosa di più di un fatto di costume? Crediamo di no. Dietro le sue provocazioni, si accennava, c’era una dichiarata fragilità da ragazzo di periferia: con padre mai visto, madre prima assente e poi perduta a 17 anni, rapporti personali complessi con la prima moglie, con la stessa Yoko Ono, con i figli. E però, dalla sensibilità che a volte accompagna la fragilità, ecco il talento: a riscattare l’uomo con l’arte. Nei Beatles prima, con McCartney vera mente musicale, ma che testi, di Lennon. Ironia (A day in a life), messaggi (All you need is love), dolori quotidiani sublimati (Eleanor Rigby). Ma anche sperimentazioni avanti, come quelle di Revolution n° 9. Poi, da solo – e con Yoko – ancora fuochi di idee, anche se meno luminosi. Da Give peace a chance sino ovviamente a Imagine.

Finché la leggenda post-mortem ha preso il sopravvento sull’arte: e, forse, il punto è tutto qui. Se di Lennon si parla ancora è perché c’era qualcosa oltre l’esteriorità e dietro le cifre: 14 milioni di dischi solisti venduti negli States, 400 milioni di dischi dei Beatles venduti nel mondo. Lennon era anche, soprattutto, quel cercare di affrontare se stessi: dichiarato un giorno, cantato più volte, condiviso da chiunque. E la sua eredità è nell’averci provato da artista, prima che un folle gli impedisse di trovare un equilibrio più alto tra la velleità di usare il rock per dire cose importanti e la capacità di farlo senza eccessi né demagogie. Insomma: non saremmo qui a scrivere di Lennon, trent’anni dopo, senza le sue canzoni. Senza la sostanza dietro la facciata, e quei versi che del talento fragile dicono il profondo, universale anelito a capirsi e capire.

«Immagina che non ci siano nazioni… Che non sia necessario né uccidere né morire… Immagina che tutta la gente viva in pace… Potresti dirmi che sono un sognatore: ma non sono l’unico». Già, forse è banale dire che, trent’anni dopo, John Lennon è soprattutto dentro faccende come il testo di Imagine. Ma senza queste faccende probabilmente non si discuterebbe ancora di lui. E di certo noi non avremmo mai pensato di scrivere ancora di un artista ucciso tre decenni orsono, e triturato dal merchandising del suo volto come un qualunque Che Guevara sulle tazze della colazione. Non avrebbero senso, queste righe, se l’opera di John Lennon non avesse saputo e sapesse dare voce a tanti. Anche a noi, nel 2010, ben oltre le provocazioni.


Andrea Pedrinelli - L'Avvenire -


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10/12/2010 10:26


LETTERATURA

Scott Fitzgerlad cattolico in lotta

«La migliore narrativa cattolica è spesso scritta dai peggiori cattolici», scriveva una decina di anni fa Jody Bottum ricordando il destino di Francis Scott Fitzgerald, grande scrittore americano modello di trasgressione per la gioventù dell’Età del jazz (prodigo, dissipatore, bevitore) che lottò per tutta la sua vita – piuttosto breve, in verità – contro la sua educazione cattolica, senza riuscire però ad evitare che i temi, i simboli e i motivi della sua narrativa se ne allontanassero del tutto.

Come Jay Gatsby, il suo personaggio più famoso, Fitzgerald voleva occultare le sue origini e preferiva i suoi quarti di sangue protestante all’ascendenza cattolica in un tempo in cui – lo ricordava lui stesso – i bambini protestanti crescevano convinti che i cattolici scavassero cunicoli per preparare un colpo di Stato in favore del papa. Fitzgerald sosteneva che lo scrittore dichiaratamente cattolico negli Stati Uniti venisse rinchiuso in un ghetto, letto da pochi, ignorato da critici e giornali e destinato a poca fama. Si liberò da quel retaggio continuando a sospettare però che, al di fuori della sua coscienza, esistesse una verità indipendente dalla sua fede e che "i segugi del Paradiso" continuassero a inseguirlo.

Fu il suo incontro con il grande e disperato amore della sua vita, Zelda Sayre, appartenente ad una facoltosa famiglia protestante, a segnare – avrebbe confidato – la decisione di recidere le radici. In più, padre Sigourney Fay, il colto sacerdote che fu il suo migliore amico, morì improvvisamente mentre lui concludeva la prima versione di Di qua dal paradiso nel 1919.

Secondo Zelda, il marito ricevette un impressionante presagio, il giorno precedente la morte di Fay. Shane Leslie, un celebre convertito del tempo cui fu dedicato Belli e dannati (ora riproposto in nuova traduzione da Newton Compton) scrisse che fu proprio la morte di Fay ad allontanare Fitzgerald dal cattolicesimo, lasciando intendere che per lui quell’ingiustizia non poteva trovare giustificazione in alcuna teodicea.

Eppure, dopo essersi allontanato dalla fede, insistette perché sua figlia Scottie fosse battezzata. Nel 1924, il giornalista Ernest Boyd scrisse un ritratto del giovane scrittore al culmine del successo, osservando che, a differenza di altri (ed erano molti negli Stati Uniti degli anni Venti), Fitzgerald non sarebbe mai diventato un comunista perché si aveva l’impressione che il suo "paradiso cattolico" non fosse così lontano dal suo spirito. Non aveva bisogno di sognare il paradiso in terra dei marxisti. Ricavava quest’impressione dal fatto che temi di peccato, punizione, redenzione continuassero ad operare nei suoi scritti.

E tuttavia, nonostante la vita dissipata e rovinata dalla follia di Zelda, i suoi romanzi mostrano un’imagery cristiana. Ne Il grande Gatsbyviene descritta la desolata Valle delle Ceneri, fra la città e la costa, dove l’equilibrio morale tende ad essere ristabilito da una forza misteriosa che continua ad operare nel mondo.

Scambi di persona, morti accidentali, colpe vicarie, quasi tutto accade lì, in quel luogo senza vita dominato dagli enormi occhi di un oculista defunto che campeggiano su un cartellone pubblicitario. Un personaggio impazzito di dolore si convince che quelli sono gli "occhi di Dio", che guardano la valle di lacrime attraverso gli spenti occhi di una figura pubblicitaria. Secondo Bottum, Fitzgerald dimostra che «anche dopo aver ripudiato Dio, vivere senza l’idea di Dio è come diventare un figlio illegittimo».


Mario Iannaccone - da L'Avvenire



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17/12/2010 16:53


POESIA

Da Baudelaire ai «fiori» dei poeti italiani


La voce di Charles Baudelaire continuo a vederla come galleria del vento, come banco di prova per la poesia contemporanea. Lo è, senza volermi dilungare, in quanto banco di prova delle visioni o meglio della mancanza di visioni dell’epoca contemporanea. Aveva ragione in questo senso un lettore come Arthur Miller, quando ricordava l’estraneità voluta ed esibita di Baudelaire ad un tempo che sarebbe stato il mondo della borghesia, con la sua «morale da cassieri», «goloso, affamato di cose e infatuato di se stesso».

E si rammenti quanto Baudelaire accusava in Heine, esponente della «scuola pagana» e di una «letteratura fradicia di materialismo sentimentalista», sostenendo contro ogni neo-paganesimo estetizzante che «non è lontano un tempo in cui si comprenderà che qualsiasi letteratura che si rifiuti di procedere fraternamente tra la scienza e la filosofia è una letteratura omicida e suicida».

In questo essere banco di prova dell’epoca che sopraggiungeva, dunque, Baudelaire lo è pure della poesia a noi contemporanea, ben al di là delle cosiddette due linee che la critica da tempo vede provenire dal suo fuoco centrale: la linea dei poeti "artisti" che in Mallarmé trova il suo acme, e in parte in Valéry, e quella dei "veggenti" che ha in Rimbaud il suo paradigma.

Nei Fleurs stanno tutti i primi movimenti dei rischi e delle conquiste della poesia successiva. L’ansia e la necessità di autogiustificarsi, come voce altra nell’agone pubblico; la forza di resistenza delle parole alle idee, secondo un’espressione che sarà di Mallarmé; la capacità straordinaria di rompere ogni distinzione tra il classico e l’inedito e non già per banale parifica bensì per tensione unitaria alla ricerca del "nuovo" che nel loro incontro può nascere; la prodigiosa orchestrazione di motivi conosciuti e di azzardi; e infine c’è pure il rischio che il ragazzo che visitò l’Inferno con occhi di vento, Arthur Rimbaud, ebbe il coraggio di notare nel suo "dio", ovvero la vita vissuta in un milieu troppo "artiste".

In Baudelaire, definitivamente, si fissa uno dei tratti del poeta autentico: d’esser voce di contraddizione rispetto all’epoca. Anche nel momento in cui esaurisce e compie le risorse formali del suo tempo, divenendo quel che chiamiamo un "classico", il poeta si pone di traverso rispetto al pensiero dominante. Allo stesso modo, W.H. Auden ricorda che più generale «ogni poeta è insieme esponente e critico della propria cultura».

Tale scandalo può mostrarsi in molti e diversi modi – e certamente oggi in modo diverso dalla metà dell’800. Leggendo i Fleurs certi "maledettismi" novecenteschi o replicati in altri ambiti – come la canzone – appaiono grotteschi e ingenui quasi da ispirare tenerezza invece che scandalo. Ma resta intatta e bruciante la verità: in un poeta autentico l’epoca trova una forza scandalosa. Montale, grande lettore dei Fleurs, mentre costata che nel nostro Ottocento manca una figura analoga di poeta centrale, assiale, imperioso nella sua forza quasi normativa (Leopardi e Foscolo, nota, lasciano scoperta buona parte del secolo) sembra rivendicare tra le righe una sua specie di "funzione Baudelaire". Come l’autore francese ebbe la forza di attraversare Hugo per portare la poesia in un’altra direzione, potremmo leggere Montale come uno che ha traversato D’Annunzio e ha operato una deviazione analoga.

Lo dichiara il famoso inizio della terza poesia che compose, «I limoni», con la sua figura dantesca e l’abiura del lessico aulico. Del resto, l’autore degli Ossi, di sé dice chiaramente di muoversi in un solco "Brownig-Baudelaire" che non è di poesia realistica, né simbolista, ma, precisa Montale, una specie di poesia metafisica.

E ora, da qualche tempo, la poesia italiana sta attraversando il grande ligure. Ma questa è un’altra faccenda, che ci porterebbe a rintracciare l’esistenza di una poesia contemporanea che non accetta di ridursi alle categorie costruite per opposizioni dalle letture novecentesche. Proprio a questa tornata, la voce di Baudelaire viene a porsi ancora accanto al lavoro dei poeti nuovi, o come guerriero che vediamo sull’altura, come sentinella sui tentativi che rifiutano la irrilevanza della poesia nella ricerca di una coscienza contemporanea veramente critica e accesa.

I migliori poeti italiani del ’900 – chi traducendo, chi leggendo con impegno – hanno toccato Baudelaire. Tra gli altri, si vedano le pagine laboriose e profonde che gli dedica Mario Luzi nella prefazione all’antologia su L’idea simbolista, dove il maggior poeta del secondo novecento italiano – presupponendo il lato germanico della riflessione romantica che genera il simbolismo – vede nell’autore dei Fleurs colui che ha introdotto una «drammatizzazione» nell’idea romantica tesa alla «ricostituzione dell’unità del mondo». Dipende da Baudelaire e dai suoi prosecutori, dice Luzi, se «fare poesia nel mondo moderno ha acquistato un significato insieme elementare e decisivo, al di qua del quale ogni altra accezione e pratica della poesia sembra oziosa».

Giorgio Caproni, dal canto suo, ingaggia con Baudelaire un suo personale e lungo corpo-a-corpo. E come è stato notato recentemente da Luca Pietromarchi introduttore della riproposta della sua traduzione dei Fleurs, quel corpo-a-corpo durato fin dagli anni ’60, ebbe non poca influenza nella nascita delle opere del Caproni estremo, cacciatore di frodo ai limiti dell’Inconnu.

Ma si tratta di casi splendidi e isolati. Troppe volte, infatti, scartando da Baudelaire, dalle sue messe in discussione, dalla sua indicazione circa il significato primordiale dell’immaginazione, dal suo freddo incendio dei luoghi comuni, la poesia contemporanea si raggomitola su un’illusione, sui propri ghirigori, evita di approfondire lo "scandalo" della propria esistenza rispetto ad ogni inerte esperienza del mondo e ad ogni comodo moralismo.

Lontana da Baudelaire, la poesia si dà per scontata e finisce per offrire cose scontate. Eppure non sono molti i cosiddetti poeti italiani contemporanei (gli "odiernissimi" li avrebbe chiamati Carducci) che abbiano di Baudelaire una esperienza non puramente letteraria, ovvero nulla. Sembra quasi che i Fleurs abbiano dovuto subire un esilio, e il peggiore degli esilii, che è quello nella presunzione del "già conosciuto".

L’etichetta di "maledetto" ha funzionato quasi perfettamente come sudario di censura. Ha posto in evidenza quel che era comodo vedere, quel che non era davvero scandaloso. E non troverete Baudelaire nei grandi canoni presupposti dai critici maggiori o dai lettori più influenti. Non lo trovate in Harold Bloom, non lo trovate in Italo Calvino, mentre abita dalle parti di Pavese e del suo novecentesco spleen. Non lo trovate nelle mappe che hanno presunto di leggere la poesia e la letteratura seguendo le coordinate della gnosi o dell’ideologia, o delle loro recenti rielaborazioni. Eppure, penetrando persino dalle griglie in cui hanno tentato di ridurla, la sua poesia ancora parla.

E questo libro «di una bellezza sinistra e fredda», fatto con «furore e pazienza» continua a dare i suoi lampi e bagliori. E a portare la sua verità. In altra occasione parlavo del poeta come colui che ha capito e patito il dualismo che segna in fronte l’epoca che ai suoi tempi iniziava e che in pieno viviamo. Ora quel dualismo tra cielo e terra, tra carne e spirito e tra bellezza e perdita pare ancora più accentuato e disperante per tanti. Ad essi Baudelaire è lucido compagno.


Davide Rondoni
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06/02/2011 17:07


5 febbraio 2011

Figli di gameti altrui: il nuovo ricorso alla Consulta sulla legge 40

Da genitori a «padroni». E questo sarebbe un nuovo diritto?

I tribunali italiani stanno realizzando una sorta di rincorsa nell’opera di contestazione della legge 40 (quella che da sette anni regolamenta la fecondazione assistita), legge con la quale – va ricordato – si è consentito il ricorso alla provetta per la quasi totalità delle coppie che l’hanno richiesta. Dopo la diagnosi preimpianto sugli embrioni, ora tocca al divieto di fecondazione eterologa – ovvero ottenuta con gameti estranei alla coppia sterile –, anch’essa finita nel mirino delle ordinanze dei giudici che si rivolgono alla Corte Costituzionale chiedendo di eliminare la proibizione contenuta nella norma.

Ai tribunali di Firenze e di Catania giovedì si è aggiunto quello di Milano, che ha sollevato la questione di costituzionalità sull’uso di gameti non appartenenti ai due aspiranti genitori. Davvero originale è la motivazione dell’ordinanza dei giudici milanesi: il divieto di fecondazione eterologa impedirebbe l’esercizio del «diritto fondamentale alla piena realizzazione della vita privata familiare».

Si tratta con tutta evidenza di una motivazione creativa, come sempre più spesso fanno i giudici anche quando le leggi ci sono, e non solo quando sono costretti a intervenire da vuoti normativi. In particolare qui si vuole introdurre un presunto nuovo diritto dei genitori, secondo una logica che trascura completamente i diritti fondamentali del bambino. Colpisce questo inedito «diritto alla vita privata familiare» – l’ennesimo di un autentico catalogo –, che potrebbe avere un ipotetico seguito nel dovere del figlio di garantire la felicità dei genitori, i quali se non accontentati potrebbero persino vantare il diritto di "divorziare" da lui...

L’ubriacatura dei diritti non ha limite e i giudici, che sono figli del nostro tempo, bevono il vino che c’è. Le notizie che si susseguono su questo fronte non meravigliano più. L’univoca sottolineatura dei diritti dei genitori è l’immediata conseguenza della rivoluzione antropologica provocata da tecniche che permettono di controllare la procreazione. Stiamo assistendo all’ampliarsi della grave frattura introdotta nella storia della condizione umana dalla fecondazione artificiale (la «Fivet»). La profonda mutazione culturale di cui si parla spesso ha tra i suoi elementi centrali la relazione degli adulti con i figli.

È nata una nuova forma mentale, un’economia psichica per la quale il bambino è diventato figlio del desiderio di avere un figlio. Prima della Fivet il figlio era semplicemente un dono della natura, il frutto della vita, e i genitori avevano il ruolo di collaboratori. Oggi la rivoluzione della provetta induce a credere che il bambino non sia altro che il frutto di una precisa volontà, di una programmazione, di un progetto. Il fatto tecnico ha conseguenze ben precise sulla soggettività: gli adulti si stanno appropriando sempre più dell’infanzia, di ogni figlio, fin dal suo inizio. I bambini di oggi sono figli dei loro genitori a un livello mai visto sinora, con tutte le implicazioni che questo comporta. Compreso il sentirsene padroni.

Si capisce dunque perché il tribunale di Milano abbia inventato un nuovo diritto: è solo la logica conseguenza del rapporto sbagliato tra genitori e figli che le tecniche di fecondazione artificiale hanno ingenerato nella cultura attuale. Ma visto che il diritto ha per sua natura la funzione di proteggere i più deboli – come bene o male fa la legge 40 nel suo attuale impianto –, i giudici milanesi avrebbero dovuto mostrare maggiore capacità di osservazione delle dinamiche antropologiche e sociali. Da loro ci si sarebbe aspettata una presa di posizione critica verso la cultura del più forte. Ma forse per qualcuno il diritto non serve più a questo scopo.

Michele Aramini
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13/02/2011 18:03

CULTURA

12 febbraio 2011
IL CORTILE DEI GENTILI

Nichilisti ciechi davanti al male

I primi passi del Cortile dei gentili, lo «spazio di dialogo tra credenti e non credenti» promosso dal presidente del Pontificio consiglio della Cultura, cardinal Gianfranco Ravasi, si muovono oggi a Bologna, nell’aula magna dell’Università. Alle 10 col rettore Ivano Dionigi e Ravasi interverranno Vincenzo Balzani, Augusto Barbera, Massimo Cacciari e Sergio Givone; Anna Bonaiuto leggerà passi di Agostino, Pascal e Nietzsche. Qui anticipiamo la riflessione di Givone.

---

Dice ancora qualcosa la morte di Dio agli uomini di oggi? Secondo Nietzsche, poco o nulla. L’annuncio che «Dio è morto» è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la fra­se a proposito di questo o di quello (secolarizzazione, scristianizzazio­ne, pensiero unico, e così via). Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi. Un po’ come dire: siamo moderni, emancipati, la fede in Dio appartiene al passato. Dovran­no passare secoli – è sempre Nietz­sche a sostenerlo – prima che gli uomini tornino a interrogarsi sul senso profondo e misterioso di questa morte.

Che la morte di Dio appaia come un evento che è or­mai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio. Non fosse che per distruggere e negare quest’idea, liquidando al tempo stesso ogni forma di trascendenza: sia la trascendenza della legge morale, sia la trascen­denza del senso ultimo della vita. Tutte cose che costringerebbero l’uomo in uno stato di sudditanza e gli impedirebbero di realizzare la sua piena umanità. L’ateismo in Dio vede il nemico dell’uomo. Per­ciò gli muove guerra. Per il nichilismo niente di tutto ciò. Quella di Dio è una bellissima idea. Talmen­te alta e nobile che, come afferma quel perfetto nichilista che è Ivan Karamazov, c’è da stupire che sia venuta in mente a un «animale sel­vaggio » come l’uomo. Però desti­nata a dissolversi come rugiada al sole sotto i raggi spietati della scienza. Rimasto senza Dio, l’uo­mo deve fare i conti con la realtà. Deve imparare a vivere sotto un cielo da cui non può più venirgli alcun soccorso né consolazione. Quindi, deve riappropriarsi della sua vita terrena e soltanto terrena. Con quanto di buono e prezioso la terra ha da offrire una volta che Dio è uscito di scena. Ma siccome non c’è nulla di buono e prezioso se non in forza dei nostri stessi li­miti, diciamo pure in forza del no­stro destino di morte (infatti come potremmo amarci gli uni gli altri se fossimo immortali?), sia lode al nulla! Questo dice il nichilismo. Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice.

Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il ni­chilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo del male. Pre­cisamente lo scandalo che l’atei­smo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consape­vole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancella­to del tutto Dio, persino come i­dea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordi­ne del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie. A differenza del nichilismo, l’ateismo pur ne­gando Dio ne reclama o ne evoca la presenza. E­semplare da questo punto di vista il ragio­namento (che a Voltaire sem­brò invincibile) svolto da Pier­re Bayle. Il ma­le c’è, indiscutibilmente. Come la mettiamo con Dio? O Dio non vuole il male ma non può impedir­lo, e allora è un dio impotente; o Dio può impedire il male ma non vuole, e allora è un dio malvagio; o Dio non può e non vuole, e allora è un dio meschino (oltre che impo­tente); o Dio può e vuole (ma di fatto non lo impedisce), e allora è un dio perverso. Dunque: non può essere Dio un dio impotente oppu­re malvagio oppure meschino op­pure perverso. Obietterà Leibniz: non è vero che Dio lasciando esse­re il male si condanna alla malva­gità e quindi alla non esistenza. Il bene, sul piano ontologico, è infi­nitamente più grande del male: anche se il bene è silenzioso, spes­so invisibile, e invece il male sconquassa il mondo. Il valo­re positivo del bene è infinita­mente più grande del valo­re negativo del male. Non solo, ma il bene è ogni volta una vittoria sul male, mentre non si può dire che il male sia una vittoria sul bene, perché il bene re­sta, anche se c’è il male, e al con­trario il male, pur non cancellato, è vinto dal bene. Perciò Dio, pur po­tendolo, non impedisce il male. Se lo facesse, col male toglierebbe an­che il bene. Quel bene che, rispetto al male, è un di più di essere, di vi­ta, di senso.

Lasciamo stare se gli argomenti di Bayle siano convin­centi e se la risposta di Leibniz possa soddisfare pienamente. Cer­to è che tanto l’ateismo di Bayle quanto il teismo di Leibniz concor­dano su un punto: è alla luce dell’i­dea di Dio che il male rivela la sua natura per così dire «innaturale», sconcertante, scandalosamente di­sumana. Tolto Dio, certo si conti­nua a soffrire, e cioè a patire le of­fese che la natura reca agli uomini e gli uomini a loro stessi, ma quan­to più debole sarebbe quel «no, non deve essere» che osiamo dire di fronte al male chiamando in causa Dio… Il nichilismo, a differenza dell’ateismo, non vuole ve­dere il male, non può vederlo. E questo per la semplice ragione che Dio non è più l’antagonista, il ne­mico: semplicemente non è più. Lo stesso si deve dire del male: non è più. Evaporato, dissolto, fattosi impensabile. «L’unico senso che do alla parola peccato – ha detto recentemente un filosofo che fa professione di nichilismo – è quel­lo che è contenuto nell’espressio­ne: che peccato!». Viva la chiarez­za. Il nichilismo è subentrato all’a­teismo. Potremmo dire che il nichilismo altro non è che una forma di ateismo in cui Dio non è più un problema, come non è più un pro­blema il male – Dio è morto, e que­sta sarebbe l’ultima parola, non solo su Dio, ma anche sul male. Questo nichilismo amichevole e pieno di buon senso, oltre che per­fettamente pacificato, continua a essere la cifra del nostro tempo.

Sergio Givone - L'Avvenire -



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19/02/2011 13:03


19 febbraio 2011

Benigni e la «memorabile» Italia

C'è da cantare e da far festa


Aprire gli occhi alle sette meno un quarto del mattino. I figli stanno per andare a scuola. Tendi l’orecchio: mentre si lava la faccia, uno di loro canta. Canta l’inno di Mameli, con quella voce appena arrochita che viene ai maschi, a quindici anni. Resti a ascoltare stupita. Come mai Mameli?, gli domandi, quando s’affaccia in cucina. Mamma, risponde, vai su Youtube a vederti Benigni sul Risorgimento, è stato bellissimo.

Bello, davvero. Bello e inusuale, oggi, sentire parlare d’Italia a quel modo: con memoria e gratitudine. Ci voleva un poeta per osare, in tempi avviliti e rabbiosi, parlare così dell’Italia. Perché i poeti, come ha detto Benigni, sono spinti dal desiderio. E il desiderio è il motore grande che muove la storia e i popoli: il desiderio di un bene comune, di continuare, e tramandare passioni e memoria nei figli.

Ci voleva anche un po’ di coraggio, in questo febbraio 2011, per esortarci all’«allegro orgoglio» di appartenere al luogo in cui viviamo, al popolo da cui veniamo; per dirci che «occorre volere bene al Paese in cui si è nati». Benigni ha avuto questo coraggio, in tempi in cui da tv e giornali ci si rovesciano addosso ogni giorno cronache di miserie e insulti. Ci ha raccontato da quanto lontano viene la nostra storia, e quanta bellezza ha creato, e in quanti sono morti per raggiungere quell’unità d’Italia che oggi è scontata o contestata. Da Balilla ai Carbonari, da Mazzini a Garibaldi a Pisacane, Benigni ha raccontato il Risorgimento come un’opera "visionaria e carnale": la resurrezione del corpo dell’Italia dilaniato dai dominatori stranieri. Retorica? Forse, anche, perché quegli anni come tutte le epoche hanno avuto le loro ombre e vittime, e i padri della patria non erano santi, e i garibaldini men che meno. Ma in un tempo di avvilimento e veleni è controcorrente la splendente retorica di Benigni: a ricordare a noi ex studenti distratti la nostra storia piena di eroi e passioni e peccatori. A dirci anzi che se apriamo gli occhi, questo nostro è un Paese grande e «memorabile».

L’Italia si è commossa, l’altra sera. Sul Web, centinaia di commenti meravigliati: gente che dice grazie, perché ha capito che cos’ha alle spalle questo Paese di cui spesso all’estero oggi si sorride; e quanto è costato metterlo assieme, smembrato com’era, e che il 17 marzo qualcosa da festeggiare c’è, davvero. A nome di tanti Napolitano ha detto grazie a Benigni. Qualcuno invece non ha apprezzato: chi soffia male sui localismi, chi sogna nuovi confini e piccole Italie privilegiate. Non ha apprezzato probabilmente anche chi nelle lacerazioni ha il suo pane. Non piace, quell’istante di timido incredulo orgoglio comune, a chi ama disfare più che costruire.

Ci ha ricordato in fondo, Roberto Benigni, ciò che spesso avvertiamo senza dircelo: la coscienza della cultura e della ricchezza e della bellezza di questo Paese, di ciò che ha dato, di ciò che è. Ha preso voce sul palco dell’Ariston quella sorta di tacita contentezza che proviamo quando, venendo da lontano, le ruote dell’aereo toccano terra, e siamo tornati in patria; e con tutti i nostri vizi e scandali, sappiamo in fondo che non cambieremmo questa terra con nessuna.

C’erano, certo, sui libri di scuola, i nomi e le battaglie ricordati nella lezione di Sanremo; ma si sa che i libri non bastano, se non c’è un maestro capace di affascinare e commuovere. Benigni l’altra sera è stato questo. Poi, quando ha intonato l’inno di Mameli a bassa voce, immaginando il canto solitario e notturno di un soldato ragazzo, alla vigilia di un’epica battaglia, quella marcia che cantavamo a scuola o allo stadio senza capire bene le parole, d’improvviso è sembrata una preghiera. Una sommessa preghiera per l’Italia. E davanti allo schermo si è rimasti zitti. La mattina, alle sette meno un quarto, quel figlio quindicenne che dal bagno canta: fratelli d’Italia... Un po’ più contento, un po’ più grato di appartenere a un popolo; di essere nato in un memorabile Paese.

Marina Corradi
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22/02/2011 16:30


22 febbraio 2011
MUSICA

Vecchioni: «E ora canto i nostri ragazzi vittime in Iraq»


Da Sanremo all’Iraq. Dalla vittoria del Festival a un ragazzo italiano, soldato, ferito in un agguato. Vecchioni non si ferma. Anzi, rilancia. Dopo avere messo d’accordo televoto, orchestrali e critica, portando a casa un plebiscito per la sua Chiamami ancora amore – che ha stracciato Emma e i Modà e Al Bano – il professore poeta ci porta dal sogno di una nuova Italia («Ho voluto unire il Paese, oltre la destra e la sinistra») al sogno (molto simile) di un ragazzo ferito in Iraq. Roberto, per pudore, non lo dice apertamente, ma nel suo cuore sa di avere scritto una specie di nuova Guerra di Piero.

Una ballata, intensa e poetica, sull’orrore della guerra vista dagli occhi di un ragazzo. «Le cose, come sosteneva Franco Fortini, non vanno mai sbattute in faccia alla gente. Bisogna avvicinarle per gradi. Usare la poesia» spiega Vecchioni. A partire dal titolo del brano, dove non compare mai (come d’altronde nel testo) la parola Iraq. La ballata in questione, invece, molto più poeticamente si intitola La casa delle farfalle.

Inizia con una chitarra arpeggiata e la voce di Vecchioni che intona: «Alla fine della notte/ di ogni guerra, in ogni tempo/ c’è una casa di farfalle in mezzo al vento/ c’è una casa che ho sognato/ proprio quando mi han colpito/ e mi sono detto è tutto qui il dolore». Il protagonista è un ragazzo italiano, soldato, che si sveglia in ospedale. E soffre talmente tanto da confondere l’infermiera con sua madre. Ed è a lei – a questa figura femminile che rappresenta per lui tutto: la vita, la casa, l’affetto, il calore, il passato e il futuro – che rivolge la sua preghiera.

Una preghiera semplice quanto ricca di significato. «Fammi ritornare a casa mia/ madre non ricordo più la via/... Fammi ritornare per Natale/ in tempo per raccogliere le viole/... Fammi ritornare in tempo per giocare/ perché sono stanco di sparare... Fammi ritornare per una carezza/ in tempo per baciare la mia ragazza/... Fammi ritornare finché batte il cuore/ finché ho il tempo di pensare amore». Nell’album Chiamami ancora amore ci sono anche altre perle.

A partire da Io porterò. «Ho immaginato, cosa che credo tanti abbiano fatto almeno una volta nella vita, cosa mi porterei nell’aldilà. E ovviamente la maggior parte delle cose sono legate all’amore». «Porterò via con me ogni bacio che mi hai dato/ che mi lasciava senza fiato/ Porterò dietro i figli come una ferita/ innamorati della vita/ Li porterò e vi terrò dove sarò o non sarò/... Mi porterò tutti i cavalli che hanno perso per un niente/ e sempre primi nella mente vi porterò». Tra i successi dell’album ricantati da Vecchioni spiccano Dentro gli occhi con Ornella Vanoni e le cover di Lontano lontano di Luigi Tenco e di Hotel Supremonte di Fabrizio De André (stupenda).

Insomma, dietro la vittoria di Vecchioni a Sanremo («Non me lo sarei mai aspettato, anche se l’avevo sperato») non c’è solo un importante passato – una storia artistica quarantennale – ma a giudicare da questo lavoro c’è anche un bel presente e un futuro. Perché questo è un album ricco e importante. Che farà conoscere a tanti un Vecchioni popolare e intenso. E che conferma come la sua vittoria abbia fatto un gran bene a un Sanremo che negli ultimi anni aveva visto trionfare dei ragazzini usciti da Amici che poi si sono di fatto squagliati alla prova del mercato. Stavolta no, stavolta il vincitore del Festival è artista di talento, di storia e di spessore. Per questo non è Sanremo ad avere aiutato Vecchioni, ma Vecchioni ad avere salvato il Festival ridandogli dignità.

Gigio Rancilio - L'Avvenire



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03/03/2011 17:12

CULTURA

VERSO IL CORTILE/6

Fabrice Hadjadj. Caro ateo, non cedere ai nuovi idoli...

Una sana "sfida" all’ateo, perché sia davvero senza idoli. E rimanga capace di aprirsi a «un’attesa dell’inatteso» che può avere il volto di Cristo, il Dio rifiutato dai credenti del suo tempo. Fabrice Hadjadj, filosofo francese convertitosi al cristianesimo, interverrà questa sera all’Università Cattolica, su iniziativa del Centro culturale di Milano (Aula Magna, ore 21), su "Modernità e modernismo. A proposito del senso religioso".

Dio. Possiamo parlarne con ii non credenti?
«Bisogna riconoscere che la prima difficoltà consiste nel discuterne coi credenti. Ce lo insegna il Vangelo: Gesù non si rivolge ad atei, ma agli specialisti della fede, scribi e farisei. Egli vuole rivelare loro il mistero del Padre. Ma essi non lo comprendono, addirittura finiscono per crocifiggerlo. Facciamo fatica ad ammettere che furono alcuni credenti a metter a morte il Figlio di Dio. Quando si crede bisognerebbe lottare per non ridurre Dio a un piccolo idolo domestico. Questo nome dovrebbe aprirci la gola come un abisso. E invece lo pronunciamo come una banalità concettuale. Se lo pronunciassimo con la vertigine dell’innamorato! Prima della mia conversione non sopportavo che si pronunciasse la parola "Dio": la consideravo come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suonava come un modo per evitare i problemi e misconoscere la tragedia della vita».

Come "verificare" l’idea, spesso confusa, di Dio?
«Egli non abolisce il dramma dell’esistenza ma lo compie. È quanto rivela il mistero della Croce. I credenti vi crocifiggono sopra Dio e Dio grida a Dio: Perché mi hai abbandonato? Non è qualcosa di abissale? Non è forse vero che questo distrugge ogni nostro idolo e ci riporta al dramma dell’"amore forte come la morte"? È necessario che i credenti riconoscano tale dramma e vivano il secondo comandamento, il quale ci domanda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intenderlo meglio».

Parla per esperienza?
«Sì. La mia fu anche una conversione "linguistica". Ho scoperto che il significante "Dio" corrispondeva alla verità del "Sì" di Friedrich Nietzsche e dell’"Aperto" di Rainer M. Rilke. E che non era un atteggiamento poetico o un concetto filosofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. "Dio" non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Non si tratta di una strategia di marketing. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri finiscono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene».

Lei ha definito la spiritualità «un trucco del diavolo». Su cosa confrontarci con gli atei?
«Sulla sessualità. Nel mio <+corsivo>Mistica della carne <+tondo>mostro che il sesso ci rimanda alla profondità autentica, fino alle viscere di Dio. In principio Dio crea l’uomo a sua immagine, maschio e femmina, in modo che la loro relazione sessuale, con la sua fecondità naturale, diventi l’immagine della Trinità. Qualunque sia il punto di partenza, anche una margherita o una lumaca, se ne parliamo correttamente, dobbiamo risalire a Dio: non va relegato nelle altezze ma va fatto comparire nel più "basso". Il cristianesimo è il contrario dello spiritualismo, e spiritualità dell’incarnazione: il Verbo si è fatto carne e si dona a noi mediante un atto spirituale e carnale, l’eucaristia. I sacramenti sono i tocchi di Cristo. Certo, per andare verso Dio dobbiamo recarci da quel prete che ci sta antipatico, da quel cristiano che ci dà fastidio sulla sedia accanto, da quel povero per invitarlo a tavola».

Di recente l’apologetica ha ripreso quota. Ma lei non ha scritto parole tenere nei suoi confronti …
«Non ho niente contro l’apologetica. È quanto cerco di fare io stesso proprio adesso. Ma vi è il pericolo di restare al livello del dibattito delle idee. Il cristianesimo non riguarda un’ideologia: è una vita. E la sua anima si trova nell’amore. Quando separiamo l’amore dalla verità cadiamo nel sentimentalismo. E se allontaniamo verità e amore, scadiamo nel dogmatismo. La Verità propria del cristianesimo è una Persona, non una teoria. E Dio stesso non è una natura anonima, ma una comunione di Persone. Molte saggezze filosofiche pretendono che la realizzazione dell’uomo consista in una conoscenza teorica o in uno stato di serenità. Il cristianesimo propone altro: un incontro. Per fare buona apologetica serve questo: prima del confronto ideale, meravigliamoci del volto del nostro interlocutore; e anche se lui non ha compreso nulla e alla fine ci infastidisce, continuiamo ad ammirare in lui la meraviglia che Dio contempla e che lui stesso, l’ateo, ignora».

Nel suo libro-intervista Benedetto XVI sottolinea il rapporto, positivo e fecondo, tra cristianesimo e modernità. Quali gli aspetti di tale relazione che arricchiscono la fede?
«La modernità pone due esigenze. La prima è di natura critica: l’uomo moderno rifiuta di ricevere qualcosa solo perché trasmesso dai suoi genitori. Reclama delle ragioni e vuole comprendere. Ma può essere ambigua: o conduce ad un ripiegamento mortale su se stessa oppure guida ad una maggior intelligenza della fede. Secondo: l’uomo moderno desidera una pienezza "qui e ora". Perciò rompe con l’aldilà. Ora, il nodo è che noi non siamo mai "qui e ora" a noi stessi. Il tempo fugge e, quando siamo da qualche parte, progettiamo di andare altrove. Manchiamo alla presenza. Non siamo mai gli uni con gli altri. Per essere del tutto presenti, dovremmo coincidere con l’essere e poter dire: "Io sono colui che sono". Questo è il privilegio dell’Eterno. Per questo volgersi verso di Lui non è fuggire il "qui e ora", ma approcciarsi ad esso e cercare di essere più presenti a tutto e a tutti».

Nel suo "La fede dei demoni" lei critica i "nuovi atei" come Michel Onfray, esempio dell’ateo "sbagliato" che "non cerca più". I non credenti sono tutti così?
«Va rimproverato agli atei di non essere ciò che loro pretendono di essere. Un ateo è qualcuno "senza dio", uno che deve disfarsi di tutti gli idoli, sforzandosi di non rendere il proprio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappresenta qualcosa di veramente difficile. Quando si abbandona il Dio trascendente, ci si confeziona altri idoli: ragione, razza, rivoluzione, mercato ... Visto che non siamo Dio ma esseri di desiderio, abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le nostre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzatomi di ogni idolo, mi è rimasta la disponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibilità consiste in un’apertura all’incontro. Eraclito la definiva "l’attesa dell’inatteso", un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attraverso una moltitudine di testimoni: la "tradizione apostolica". Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fino a me».

Lorenzo Fazzini
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18/03/2011 11:41


18 marzo 2011

L'Italia, la fame d'energia, il dilemma nucleare

Nucleare, scelte ragionevoli per un futuro che inquieta

Un cammino condiviso. Nel giorno dell’Unità nazionale e della paura planetaria, l’invito alla riflessione venuto dal ministro Romani ha quantomeno avuto l’effetto di un gong. Alt, si fermino le polemiche strumentali e le enunciazioni apodittiche. Quel che è accaduto e sta accadendo in Giappone va troppo oltre la contrapposizione ideologica tra nuclearisti incrollabili e antinuclearisti apocalittici, resa più meschina da interessi di cortile. Il nucleare non è il demonio, eppure ciò che vediamo in queste ore evoca scenari infernali. Dunque non è neppure 'buono', banalmente innocuo, tecnologicamente rassicurante. In una sorta di 'ode al Giappone' pubblicata due giorni fa sul New York Times si invoca un ribaltamento delle scale di valori nel considerare le politiche energetiche, dando finalmente corpo alle raccomandazioni degli scampati ai bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki. «Unica nazione mai attaccata con ordigni nucleari, il Giappone ha la responsabilità morale di evitare tali opzioni energetiche pericolose».

Non sono bombe innescate, le centrali atomiche, e vengono progettate e costruite con criteri e sistemi di sicurezza di generazione in generazione sempre più sofisticati. Eppure… Proprio là dove non sarebbe mai dovuto accadere, è bastato che la natura facesse il suo corso. Dirompente. Un terremoto devastante, un maremoto di una violenza mai immaginata. Ma in primo piano, in questo scenario da incubo, è balzata subito la potenzialità distruttrice dell’opera umana, con il suo seguito di bugie, mezze verità, incapacità a porre rimedio al disastro. Tutto previsto tranne l’imprevedibile. Ora il mondo ha paura, ora abbiamo paura. Paura di quelle reazioni che non si riescono più a controllare. Paura delle scorie, che irradiano morte per i secoli. Di più, paura di non poter più in futuro accendere la luce, di essere costretti a rimettere mano a un modello di sviluppo che succhia tanta energia quanta la natura e le tecnologie convenzionali non potranno mai offrire.

Ecco qua il dilemma. Eccolo il nocciolo rovente che ha mandato in tilt le menti più illuminate del pianeta e di ogni singolo Paese, compreso il nostro. Interessi enormi in campo. Battaglie di anni giunte al confronto più scottante. Abbiamo bisogno di energia, per sopravvivere, per crescere o per gestire uno sviluppo più o meno consolidato. Ma abbiamo bisogno proprio di quella energia? Il sole, il vento, l’acqua, i rifiuti, magari an­cora il carbone e i suoi fumi. E il petrolio, il gas. Confidare sempre e sempre di più in risorse che sappiamo non infinite e che comportano dipen­denze economiche e geopolitiche sempre più soffocanti? Ma l’abbraccio atomico ci renderà liberi o si libererà di noi? E poi, dove? Se non nel mio cor­tile, dove? Ci sono esempi virtuosi di economie lo­cali fiorite grazie all’ingombrante ospite. Chi si fa a­vanti? E la 'corona' di centrali nucleari appena ol­tre i nostri confini che sicurezza offre? Gira la testa. Al cittadino comune, al padre e alla madre di fami­glia. E fors’anche ai politici, costretti a far prevalere su tutto le ragioni di schieramento e i calcoli pre­elettorali o referendari. Ed ecco allora che un semplice richiamo alla cal­ma, alla riflessione, alla razionalità di fronte a un e­vento imprevedibile e forse irripetibile appare ra­gionevole ma persino sorprendente. Sono scelte e­pocali, che si fanno oggi e guardano al domani e dopodomani.

Abbassare toni e vessilli per ragiona­re sul futuro, tenendo a bada schieramenti e piccoli o grandissimi interessi di bottega non sembra un prezzo sproporzionato rispetto all’obiettivo. Forse già da domani la diatriba politica si rimangerà gli incerti margini concessi ieri, ma se avessimo fe­steggiato l’Unità senza passi indietro o in avanti, scendendo semplicemente dal piedistallo dei pro­clami per ritrovarci nel campo del confronto civile e ragionevole, potremmo aver ipotecato in positivo i prossimi 150 anni.

Marco Bertola - L'Avvenire



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30/03/2011 21:20


30 marzo 2011

PIANETA CARCERI

Carceri, niente cella per detenute con figli fino a 6 anni

Il Senato ha approvato in via definitiva con 178 voti a favore, 93 astenuti del Pd, e nessun voto contrario il ddl sulla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. Il provvedimento prevede, tra l'altro, che non venga disposta custodia cautelare in carcere, salvo casi di eccezionale rilevanza, per la donna imputata che abbia un figlio fino a sei anni. Il limite precedente era di tre anni.

Secondo le nuove norme, è possibile disporre la custodia cautelare presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Le disposizioni della legge decorreranno dal 1° gennaio 2014, a meno che non venga data attuazione al piano penitenziario già prima di tale data e fatta comunque salva la possibilità di utilizzare i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata.

È prevista la possibilità per la detenuta madre di visitare il figlio che si trovi in grave pericolo di vita o in gravi condizioni di salute. La possibilità, in alternativa, è estesa al padre condannato, imputato o internato, se la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata a effettuare la visita. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, le detenute madri di figli minori di tre anni (questo il riferimento disponibile alla luce della normativa attuale) erano 42 al 31 dicembre 2010.


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04/04/2011 19:00


3 aprile 2011

MEMORIA VIVA

La vita di Giovanni Paolo II scuola della fiducia in Dio

Anche nel momento della morte Giovanni Paolo II «ha lasciato una grande pace, una fiducia e un abbandono che hanno sempre animato la sua vita, fin dagli anni giovanili». È questa, secondo il cardinale domenicano Georges Cottier, teologo emerito della Casa pontificia, una parte importante dell’eredità umana e spirituale lasciata da Karol Wojtyla, di cui ieri è stato ricordato il sesto anniversario dalla morte.

Eminenza, che ricordo ha di quel giorno?
Lo ricordo con grande commozione. Soprattutto per la testimonianza che ha reso nella grande sofferenza prima della morte. Mi colpì molto l’ultima sua apparizione, la domenica precedente quando l’emozione – i medici dissero che in realtà avrebbe potuto parlare – gli impedì di pronunciare le ultime parole. La pace che ci ha lasciato morendo nasce di certo dalla profonda fiducia, soprattutto nella Madonna come messaggera della provvidenza divina, con la quale ha vissuto l’intera sua vita. La sua è stata una vita cristiana, segnata anche dalla croce, seguita da una morte profondamente cristiana.

Quale oggi la sua più grande eredità?
Quello che mi colpisce di più oggi è la sua continua presenza nel cuore della gente, che vive un’autentica devozione nei suoi confronti. Penso che sia il frutto del suo particolare carisma di essere vicino alle persone che aveva davanti, ascoltando i loro problemi e facendosi carico dei loro problemi, pur conservando un certo "silenzio" di fondo, che nasceva dalla sua unione con Dio. Stava accanto alle persone rimanendo sempre unito a Dio, insomma. Da questo di certo nasceva la grande pace e serenità che trasmetteva sempre, pur essendo impegnatissimo – quando era con qualcuno non aveva mai fretta – e anche provato fisicamente. Davanti a lui si aveva subito l’impressione di avere a che fare con un uomo di preghiera. Questo, si può dire, era il «segreto» del suo carisma. E il suo cammino di preghiera era di certo cominciato già in età giovanile.

Il suo Pontificato ha cambiato la storia: come viveva questo?Penso che ne avesse consapevolezza, ma non lo viveva con orgoglio umano; si sentiva piuttosto uno strumento di Dio. Era un figlio del Concilio e aveva un senso acuto e una chiara percezione dei segni dei tempi e sapeva esprimerlo con grande semplicità. La sola espressione «non abbiate paura» è stata fantastica, perché aveva percepito che i regimi totalitari, ma non solo, incutevano paura alla gente. La volontà di liberare la gente da questa paura ha guidato sempre i suoi interventi, come quelli che fece per Solidarnosc o quando scoppiò la prima guerra in Iraq. E in tutto questo l’unico suo strumento erano le parole: sapeva trovare quelle giuste al momento giusto con grande semplicità, vedeva dove era il male e dove era il rimedio. Ma ha sempre saputo ascoltare i collaboratori: lui personalmente ha avuto di certo delle grazie profetiche, eppure non dobbiamo pensarlo come un «profeta solitario», che sa tutto e decide tutto in autonomia. Sapeva domandare consiglio e sapeva confrontarsi con delicatezza.

Nella "galleria dei santi" tra quali lo collochiamo?
È stato un grande pastore che, come successore di Pietro, ha lavorato per l’unità della Chiesa – questo era l’intento dei suoi viaggi. E poi era un grande missionario. Nella missione ha aperto strade inedite, come quella della nuova evangelizzazione.

Se dovesse rivolgere una preghiera al beato Giovanni Paolo II, cosa chiederebbe?
Lo pregherei per la pace religiosa. Lui ha sempre chiesto che il fatto religioso venga riconosciuto e rispettato nell’odierna società secolarizzata, auspicando che i credenti di tutte le religioni siano artigiani di pace. In questo ambito Wojtyla è stato l’iniziatore di un cammino nel quale resta ancora molto da fare. E poi pregherei per la missione, così come la intendeva lui: un incontro di vita personale.


Matteo Liut - L'Avvenire -



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08/04/2011 19:39


12 marzo 2011

Fine vita: appello al parlamento

Sì, torniamo alla legge


Il disegno di legge sulle dichiarazioni an­ticipate di trattamento in discussione al­la Camera dei deputati è una proposta ra­gionevole, condivisibile, realmente liberale e oggi non più rinviabile, a fronte degli av­venimenti degli ultimi anni su fine vita e li­bertà di cura. È necessario, infatti, che il Parlamento pon­ga per legge limiti e vincoli precisi a quella giurisprudenza 'creativa' che sta introdu­cendo surrettiziamente nel nostro Paese ar­bitrarie derive eutanasiche. Rilevanti e gra­vi decisioni giudiziarie hanno infatti reso possibile interrompere la somministrazio­ne di cibo e acqua, anche per vie artificiali, a persone non più in grado di esprimere il proprio consenso, e hanno ridotto il con­senso informato alla ricostruzione ex post delle volontà di una persona, dedotte persi­no dai suoi "stili di vita", ignorando la ne­cessità di una volontà attuale basata su un’informazione medica adeguata.

Il testo di legge in discussione – pur essendo, come qualsiasi provvedimento legislativo, miglio­rabile – è chiaro e lineare a proposito delle questioni appena richiamate e, dunque, nei suoi contenuti fondanti. E noi riteniamo che se non fosse approvato in tempi rapidi, te­nendo saldi questi suoi princìpi cardine, di­venterebbe sempre più difficile drenare una giurisprudenza orientata a riconoscere il "di­ritto" a una morte medicalmente assistita, in altre parole all’eutanasia trasformata in at­to medico.

La nostra è la civile e laica preoccupazione di persone informate e responsabili, ben consapevoli della rilevanza della questione posta dai pronunciamenti giudiziari che hanno rovesciato nel suo contrario il princi­pio del "favor vitae" al quale il nostro ordi­namento s’ispira. Da credenti siamo anche confortati dal fat­to che in questa materia il magistero della Chiesa si è inequivocabilmente pronuncia­to, come si può evincere dalle "Risposte a quesiti della Conferenza episcopale statuni­tense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali" predisposte dalla Congregazione per la dottrina della fede, allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, come anche nel discorso di Giovanni Paolo II al congres­so su "I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e di­lemmi etici", del marzo 2004; come più in generale nell’enciclica Evangelium Vitae .

Re­centemente il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale ita­liana, rifacendosi al costante magistero pon­tificio, ha a sua volta dichiarato: «La legge che sta per essere discussa alla Camera non è una legge "cattolica". Semplicemente rap­presenta un modo concreto per governare la realtà e non lasciarla in balia di sentenze che possono a propria discrezione emettere un verdetto di vita o di morte. I malati termina­li rischierebbero di essere preda di decisio­ni altrui. Precisare poi che l’alimentazione e l’idratazione non sono terapie, ma funzioni vitali per tutti, sani e malati, corrisponde al buon senso dell’accudimento umano e pongono un limite invalicabile, superato il quale tutto diventa possibile».

Ci sono solidi argomenti di ragione – co­muni a laici e cattolici – per sostenere l’ur­genza, l’efficacia e l’utilità del testo di leg­ge all’esame della Camera dei deputati. E per noi, in quanto credenti, sussiste anche l’autorevole pronunciamento della Chie­sa che, in forza del suo sapienziale discer­nimento e con l’autorevolezza morale al­la quale da più parti si guarda con rinno­vata speranza, indica la via attualmente più concreta alla tutela del bene co­mune. Questa legge va fatta, e va fat­ta adesso.

Vinicio Albanesi, Dino Boffo, Paolo Bustaffa, Francesco D’Agostino, Giuseppe Dalla Torre, Stefano De Martis, Assuntina Morresi, Lorenzo Ornaghi, Antonio Sciortino, Antonio Socci, Marco Tarquinio, Francesco Zanotti

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14/04/2011 19:03


Lettere al Direttore


Il direttore risponde

Quel buon «potere» delle donne



Gentile direttore,
in questo periodo di paure degli stranieri, di preoccupazione per paventate invasioni dal Sud del mondo, di insicurezza sociale cavalcata da alcuni partiti politici, di scarsa attenzione alla "cura" dei più deboli con continui tagli economici, ecco un piccola storia di bene. Sono un medico e lavoro in Lombardia. È un giovedì affollato in studio con mamme e bimbi. Sono le 10 del mattino e già in ritardo sulla tabella di marcia. Chiama l’assistente sociale del paese. Dimmi, rispondo, sperando sia breve. Un mio piccolo paziente dall’ospedale locale verrà trasferito in un grosso nosocomio per complicanze. La famiglia straniera è in difficoltà a lasciare le altre figlie. La prima è scolara, la seconda non cammina ancora. Che fare? Scarico il file di dimissione dell’ospedale. Leggo. La situazione è urgente. Riprendo il lavoro, pensando, mentre ascolto storie di febbri e tossi, quali famiglie contattare per un affido temporaneo, ma urgente. A fine ambulatorio faccio un giro di telefonate a persone sensibili forse disponibili. È difficile esser convincenti a prendersi subito in casa un minore straniero, sconosciuto. Sono fortunata. La donna rintracciata è casalinga, impegnata nel sociale e subito accenna di lettino, box e disponibilità dal giorno successivo. Ha già seguito nipoti piccoli e avvisa che sposterà appuntamenti sociali, impegni e riorganizzerà la famiglia già numerosa. Bene, per la piccola ci siamo. Ora la grande. Un’amica affidataria mi rigira il numero di una donna che partecipa agli incontri sull’affido. Vedendo l’esperienza positiva anche se faticosa di altre coppie, aveva dichiarato che il prossimo bimbo in difficoltà l’avrebbe ospitato lei. La chiamo. Spiego, cerco di convincere. Non c’è bisogno. Si rende subito disponibile, avvisa che essendo in mobilità chiederà in fabbrica di non lavorare l’unica settimana di aprile che le spetta e nella quale percepisce un misero stipendio. Resto ammirata. Poi mi chiede del pulmino per il trasporto a scuola, del cibo perché la famiglia è musulmana, del letto che preparerà. Sento che ha detto sì prima col cuore, poi con la mente. Richiamo l’assistente sociale. Domani convocherà le due donne, poi si inizierà l’affido. È sera. Torno a casa stanca, ma contenta. In meno di dieci ore una storia complicata si è risolta per la disponibilità di due donne generose. Spero per la salute del piccolo in ospedale. Forse è proprio vero che la cura è una prerogativa prettamente delle donne, che l’animo femminile risponde prima con il cuore e poi con la testa (le ragazze di oggi parlano di scelte "di pancia", ma penso che la scelta sia presa da qualcosa che sta un po’ sopra all’addome!), che le professioni di cura – come scriveva bene Edith Stein quando era ancora filosofa – sono quelle più indicate per le donne. E se nella cura dell’ambiente urbano, delle scelte energetiche o nelle politiche comunali, nei posti decisionali dello Stato nei quali di discute di minori, famiglia, disabili, ecologia ci fossero più donne per metter la propria sensibilità e attenzione, la propria cura nelle scelte sociali, tralasciando polemiche di partito, non ci sarebbe una società più umana e forse più giusta? Sono troppo "di parte", direttore?

E. M.



No, cara e gentile amica, non è troppo "di parte". Lei dice cose molto vere e ci offre – con una richiesta di riserbo che comprendo – riflessioni molto intense. Risponderò alla sua ultima domanda con una citazione a memoria. C’è un canto degli indiani d’America che mi piace molto, che mi abita dentro con la sua visionaria e struggente carica di verità da quando ero ragazzo. Sbaglierò qualche parola, ma sono sicuro di proiettarne il senso: «Gli uomini armano le mani, gli uomini vanno in guerra, gli uomini uccidono… Donne come cambierete tutto questo? Gli uomini lottano, gli uomini versano sangue, gli uomini provocano il pianto dei piccoli… Donne che farete per cambiare tutto questo?». È un canto "femminile", e quelle domande – apparentemente rivolte solo alle donne ma assillanti soprattutto per gli uomini – somigliano alla sua. Da quando le ho incontrate mi tornano spesso in mente. E, anno dopo anno, le emozioni anche contrastanti che avevano suscitato in me, si sono fatte constatazioni. Vorrei insomma dirle – da uomo, da padre di famiglia e da giornalista – che mi sono reso conto, sempre più e sempre meglio, che è certamente una società migliore quella nella quale riescono a emergere e a insediarsi nelle logiche portanti e nelle "direttive" di sistema le capacità e il potere di cura delle donne, che lei richiama ed esemplifica così efficacemente. È migliore perché quella capacità e quel potere non solo integrano le doti e le abilità maschili, ma in certi casi le convertono. È migliore perché una società "pari" – che riconosce il «genio femminile» e gli è risconoscente – è più orientata alla solidarietà, tende a essere attenta, pacifica e tenace come una famiglia forte e generosa di sé.Grazie, cara dottoressa, per averci regalato, in presa diretta, un’altra bella storia scritta da un’Italia altrettanto bella e verissima. Un’Italia – anzi un profondo Nord d’Italia – dove il "bene" accade non perché sia facile e comodo, ma semplicemente perché è giusto e umano che sia così.



da L'Avvenire

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11/05/2011 18:34

IL CASO

Benigni: con Dante ritorno a Dio


«Mia mamma era analfabeta, ma come la "Madonna del cardellino" di Raffaello aveva sempre in mano il Vangelo, si metteva accanto a una cosa calda e apriva questo libro senza saper leggere. E io le dicevo: "Ma mamma, non sai leggere…", e lei mi guardava in un modo e sorrideva e non rispondeva, ma sembrava che mi dicesse: "So leggere più di te"».

Chissà quanto volte sarà tornata alla mente di Roberto Benigni questa immagine che affidò alle pagine di questo giornale nella conversazione con Davide Rondoni nel 2007? Certo è che di Vangelo il comico toscano ne ha masticato molto, soprattutto per portare sulle piazze del mondo la Commedia dantesca e arrivare a dire che «Gesù, il Signore, s’è fatto uomo perché gli uomini diventassero Dio. Lui che non ha mai peccato s’è preso tutti i peccati, ha fatto tutto quello… è una cosa spettacolare quello che ha fatto». Oppure che «una volta morto è andato di là; non solo ha liberato tutti noi, ma è andato anche a liberare nell’Inferno qualcuno che non riteneva giusto che fosse lì… Gesù Cristo ne ha salvati proprio tanti! C’è sempre una speranza con Gesù, ragazzi. Io credo che c’è speranza anche all’Inferno, se c’è Gesù».

Altrettanto certo è che nelle opere di Benigni (dagli spettacoli di cabaret ai varietà televisivi, dai film alle letture dantesche) c’è una attenzione ricorrente per le tematiche religiose. Dio, Gesù, la Bibbia, la creazione, angeli e diavoli, il Giudizio universale, Maria… Gli esempi sono innumerevoli. Argomenti affrontati a volte con ironia, a volte con grande profondità. Si pensi ai primi spettacoli, di tanti anni fa, alle feste dell’Unità (poi raccolti nel primo «Tuttobenigni»). Quelli in cui diceva che «Dio che sta nell’alto dei cieli» suonava troppo lontano, metteva persino paura e suggeriva al Padreterno (parlandogli con familiarità, più che con sfrontatezza) di prendere un nome più familiare: «Guido, che sta a mezz’aria…». E poi i film, dagli improbabili miracoli del Gesù bambino di «Tu mi turbi» al Padre Nostro recitato, per intero, davanti alla moglie morente ne «La tigre e la neve». Per arrivare alle grandi disquisizioni sull’Inferno e il Paradiso, il peccato e la grazia, l’uomo e Dio, che infarciscono i commenti alla Divina Commedia.

Da qui è nata l’idea di un libro a più mani, in uscita nei prossimi giorni (Roberto Benigni. Da «Berlinguer ti voglio bene» alla «Divina Commedia», il percorso di un comico che si interroga su Dio<+tondo>), a cura di Riccardo Bigi, edito dalla Società editrice fiorentina, che analizza in maniera sistematica il modo in cui Benigni nelle sue opere (e in particolare nei film e nelle letture dantesche) parla di Dio. Lasciando fuori il Benigni "politico", la satira, le comparsate televisive su cui già si è detto e scritto tanto, mentre mai prima d’ora era stato studiato quale idea del divino e dell’umano emerga dai suoi lavori. Su questo sono stati coinvolti un critico cinematografico, Francesco Mininni, e un teologo, monsignor Andrea Bellandi.

«Benigni è un artista che rimanendo fedele a se stesso ha allargato i propri orizzonti. Una persona– spiega Mininni – che a lungo andare, guardandosi allo specchio, ha capito che lo sberleffo da solo non basta a esprimere i sentimenti che ha dentro. E che ha deciso di fare e dire di più. Tra Berlinguer ti voglio bene e La vita è bella non passano soltanto vent’anni. Ci sono un percorso, una riflessione, un cambiamento di punto di vista, un diverso amore per la vita, una differente interiorità».

«Grazie a Benigni, la Commedia – afferma Bellandi – è tornata e sta tornando a essere testo appassionante e ricercato da molte persone che desiderano coglierne la portata educativa, magari anche volendo approfondirne l’origine e il contenuto spirituale. Ma il merito di Benigni è anche quello di mettersi lui stesso in gioco di fronte al testo, accettando consapevolmente di correre un rischio duplice: quello di deludere i numerosi fan del Benigni comico e quello di incorrere negli strali degli addetti ai lavori: letterati, intellettuali, perfino alcuni ecclesiastici. Non sappiamo quanto la scommessa sia stata vinta; è certo però che, dopo il suo tentativo, il capolavoro di Dante è ritornato prepotentemente attuale. Ciò non vuol dire che l’interpretazione datane dall’artista toscano sia sottoscrivibile in ogni sua parte, o esaurisca tutta la sconfinata profondità, soprattutto teologica, dell’opera medesima; tuttavia non si può negare che egli vi si sia confrontato lealmente, mettendo in gioco tutta la ricchezza della propria umanità».

«Non c’è comunque dubbio che la cultura popolare di Benigni – conclude il curatore del libro – sia intrisa fino al midollo di religiosità. Una religiosità che può esprimersi nella presa in giro, nella battuta, nell’irrisione come nell’esposizione appassionata di sofisticate dottrine teologiche che si nascondono dietro i versi di Dante. Perché in fondo la comicità e la poesia, come ogni forma d’arte, sono strade per dire quelle cose che il linguaggio umano, altrimenti, non riesce a esprimere».

Andrea Fagioli

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ATTUALITA' / NEWS

Il Nobel per la pace? Alle donne dell'Africa




Gioiosa, laboriosa, intuitiva, profondamente religiosa, intraprendente. La donna africana merita il Nobel. La campagna Noppaw.

10/06/2011

In queste ultime settimane sono state moltissime le iniziative e gli incontri in cui, ancora una volta, la nostra attenzione si è concentrata sulla grande ricchezza del mondo femminile, specie della donna africana. Così come sono emerse le tante contraddizioni che esistono nella nostra società, dove la donna è ancora considerata non come risorsa di mente e di cuore, ma semplicemente per i vari servizi che può offrire, tra cui quello manuale e soprattutto sessuale.

In alcuni di questi incontri erano presenti e coinvolte le stesse donne africane che chiedono alle nostre istituzioni e alla nostra Chiesa più attenzione e rispetto, libertà e dignità, riconoscimento e apprezzamento. Durante il viaggio intrapreso con due suore nigeriane in varie regioni d’Italia abbiamo potuto approfondire sul campo il problema della tratta di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, costatare di persona il lavoro fatto per il contrasto di questo fenomeno, ma soprattutto renderci conto di quanto rimane ancora da fare per sconfiggere la prostituzione coatta di tante donne, specialmente nigeriane.

Negli stessi giorni ho partecipato all’incontro organizzato, presso il ministero degli Affari Esteri a Roma, per la presentazione della Campagna di NOPPAW per il conferimento del Premio Nobel per la Pace 2011 alle donne d’Africa. Contemporaneamente tale candidatura veniva presentata direttamente al Comitato a Oslo. Moltissime erano le delegazioni di donne africane desiderose di offrire il loro contributo per una società giusta e pacifica, fondata su giustizia, equità, rispetto, dignità.

L’immagine più bella e vera che è uscita dalla presentazione di questa campagna è quella di una donna gioiosa, laboriosa, intuitiva, intraprendente, profondamente religiosa e costantemente in cammino. Ben venga dunque il Premio Nobel alle donne africane. Ma dobbiamo essere consapevoli che non potremo godere di questo traguardo se non avremo sconfitto la schiavitù di tante, troppe donne africane, costrette a vivere e a consumarsi sui nostri marciapiedi ad uso e consumo dei clienti del sesso a pagamento.

Non è possibile riconoscere alle donne africane il loro grande valore e apporto alla società, con la loro intraprendenza, tenacia e coraggio, senza ricordare anche tutte coloro che sono umiliate e sfruttate, costrette a vendere il loro giovane corpo insieme ai loro sogni, alla loro giovinezza e alla loro voglia di vivere una vita dignitosa e utile per loro e per la loro famiglia. Solo sconfiggendo la tratta di esseri umani, la nostra campagna per il Premio Nobel per la Pace 2011 avrà senso e valore. Perché anche le donne sfruttate potranno goderne, giacché loro stesse si saranno riappropriate del premio più grande: la loro dignità e libertà.


Suor Eugenia Bonetti

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15 giugno 2011
INEDITO





Io, Asia Bibi, muoio: ascoltate la mia voce!

In carcere i giorni e le notti sono uguali. Non so più dire che cosa provo. Paura, questo è sicuro... ma non mi opprime più come all’inizio. I primi giorni arrivava a farmi battere un tamburo in petto. Ora si è un po’ calmata. Non è più un soprassalto continuo. Le lacrime no, non mi hanno mai lasciata. Scendono a intervalli regolari. I singhiozzi, invece, sono cessati. Le lacrime sono le mie compagne di cella. Mi dicono che non mi sono ancora arresa, mi dicono che sono vittima di un’ingiustizia, mi dicono che sono innocente.

Non so molto del mondo al di fuori del mio villaggio. Non ho studiato, ma so che cosa è bene e che cosa è male. Non sono musulmana, ma sono una buona pakistana, cattolica e patriota, devota al mio Paese come a Dio. Abbiamo amici musulmani. Non ci sono mai stati problemi. E anche se non abbiamo avuto sempre vita facile, abbiamo il nostro posto. Un posto di cui ci siamo sempre accontentati. Quando si è cristiani in Pakistan, ovviamente bisogna tenere gli occhi un po’ più bassi. Certi ci considerano cittadini di seconda categoria. A noi sono riservati lavori ingrati, mansioni umili. Ma il mio destino non mi dispiaceva. Prima di tutta questa storia ero felice con i miei, laggiù a Ittan Wali. Oggi sono come tutti i condannati per blasfemia del Pakistan.

Che siano colpevoli o no, la loro vita viene stravolta. Nel migliore dei casi stroncata dagli anni di carcere. Ma il più delle volte chi è condannato per l’oltraggio supremo, che sia cristiano, indù o musulmano, viene ucciso in cella da un compagno di prigionia o da un secondino. E quando è giudicato innocente, cosa che capita assai di rado, viene immancabilmente assassinato appena lascia il penitenziario. Nel mio Paese l’accusa di bestemmiatore è indelebile. Essere sospettati è già un crimine agli occhi dei fanatici religiosi che giudicano, condannano e uccidono in nome di Dio. Eppure Allah è solo amore. Non capisco perché gli uomini usino la religione per fare il male. Mi piacerebbe credere che prima di essere esponenti di questa o quella religione siamo anzitutto uomini e donne. In questo momento mi rammarico di non saper né leggere né scrivere. Solo ora mi rendo conto di quale enorme ostacolo sia. Se sapessi leggere, oggi forse non mi ritroverei chiusa qui dentro. Sarei senz’altro riuscita a controllare meglio gli eventi. Invece li ho subiti, e li sto subendo tuttora. Secondo i giornalisti, 10 milioni di pakistani sarebbero pronti a uccidermi con le loro mani.

A chi mi eliminerà, un mullah di Peshawar ha addirittura promesso una fortuna: 500.000 rupie. Da queste parti è il prezzo di una bella casa di almeno tre stanze, con tutti i comfort. Non capisco questo accanimento. Io, Asia, sono innocente. Comincio a chiedermi se, più che una tara o un difetto, in Pakistan essere cristiani non sia diventato semplicemente un crimine. Il mio unico desiderio, in questa minuscola cella senza finestre, è quello di far sentire la mia voce e la mia rabbia. Voglio che il mondo intero sappia che sto per essere impiccata per aver aiutato il prossimo.

Sono colpevole di avere manifestato solidarietà. Il mio torto? Solo quello di avere bevuto dell’acqua proveniente da un pozzo di alcune donne musulmane usando il «loro» bicchiere, quando c’erano 40 gradi al sole. Io, Asia Bibi, sono condannata a morte perché avevo sete. Sono in carcere perché ho usato lo stesso bicchiere di quelle donne musulmane. Perché io, una cristiana, cioè una che quelle sciocche compagne di lavoro ritengono impura, ho offerto dell’acqua a un’altra donna. Voglio che la mia povera voce, che da questa lurida prigione denuncia tanta ingiustizia e tanta barbarie, trovi ascolto. Desidero che tutti coloro che mi vogliono vedere morta sappiano che ho lavorato per anni presso una coppia di ricchi funzionari musulmani. Voglio dire a chi mi condanna che per i membri di quella famiglia, che sono dei buoni musulmani, il fatto che a preparare i loro pasti e a lavare le loro stoviglie fosse una cristiana non era un problema. Ho passato da loro 6 anni della mia vita, ed è per me una seconda famiglia, che mi ama come una figlia!

Sono arrabbiata con questa legge sulla blasfemia, responsabile della morte di tanti ahmadi, cristiani, musulmani e persino indù. Da troppo tempo questa legge getta in prigione degli innocenti, come me. Perché i politici lo permettono? Solo il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro cristiano per le Minoranze, Shahbaz Bhatti, hanno avuto il coraggio di sostenermi pubblicamente e di opporsi a questa legge antiquata. Una legge che è in sé una bestemmia, visto che semina oppressione e morte in nome di Dio. Per avere denunciato tanta ingiustizia questi due uomini coraggiosi sono stati assassinati in mezzo alla strada. Uno era musulmano, l’altro cristiano. Tutti e due sapevano che stavano rischiando la vita, perché i fanatici religiosi avevano minacciato di ucciderli. Malgrado ciò, questi uomini pieni di virtù e di umanità non hanno rinunciato a battersi per la libertà religiosa, affinché in terra islamica cristiani, musulmani e indù possano vivere in pace, mano nella mano. Un musulmano e un cristiano che versano il loro sangue per la stessa causa: forse in questo c’è un messaggio di speranza. Supplico la Vergine Maria di aiutarmi a sopportare un altro minuto senza i miei figli, che si chiedono perché la loro mamma sia improvvisamente sparita di casa. Dio mi dà ogni giorno la forza di sopportare questa orribile ingiustizia. Ma per quanto ancora?




Copyright © Oh! Éditions, 2011. All rights reserved © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Asia Bibi



da L'Avvenire



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22 giugno 2011

A proposito della sentenza sul crocifisso e del libro di Cardia

Nessuno rimanga indifferente di fronte alla cristianofobia in Europa


Questa sera nell’Ambasciata italiana a Mosca viene presentata la versione russa del libro di Carlo Cardia Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocifisso . L’iniziativa è dell’ambasciatore Antonio Zanardi Landi che aveva promosso la pubblicazione dell’originale italiano lo scorso anno quando ancora ricopriva l’incarico di rappresentante dell’Italia presso la Santa Sede. Il volume nella nuova edizione, oltre a quelle di Gianni Letta e Franco Frattini già presenti nella precedente, è arricchita dalle prefazioni dello stesso Zanardi Landi, di Adriano Dell’Asta, e di quella, che pubblichiamo qui a fianco, del metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le Relazioni esterne del Patriarcato di Mosca.

L’opera del professor Carlo Cardia che viene proposta all’attenzione del lettore colpisce per la profondità delle ricerche storiche e delle moderne manifestazioni della religiosità nella vita pubblica dei popoli del continente europeo. Questo lavoro è divenuto una delle risposte scientifiche più approfondite ai quesiti posti dalla sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo che nel novembre 2009 ha qualificato l’esposizione del crocifisso nelle scuole italiane come una violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Le costruttive critiche alla sentenza del 2009 riportate nel libro sono divenute uno dei fondamenti intellettuali decisivi al fine di riesaminare nel 2011 la posizione iniziale della Corte di Strasburgo. Come è noto, molti Stati europei e comunità religiose hanno appoggiato il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza della Corte di Strasburgo che ha tentato di ricondurre ad un denominatore comune tutta la molteplicità e la complessità dei rapporti costituitisi nei secoli sul continente tra Stato e Chiesa e fra società e religione. In quell’occasione Sua Santità Kirill Patriarca di Mosca e di tutte le Russie assunse una posizione inequivocabile, giudicando l’operato della Corte un attentato alla comune identità cristiana dell’Europa e salutò favorevolmente la decisione delle Autorità italiane di adoperarsi per rimuovere tale affronto. La posizione dei leader spirituali europei ha trovato dovuta espressione in quest’opera.

L’impegno congiunto degli Stati europei e dei leader religiosi, il cui risultato è stato il ristabilimento della giustizia nel caso 'Lautsi contro l’Italia', ha dimostrato che i popoli europei sono disposti a difendere la propria identità cristiana, il diritto di vivere in base alla propria concezione del ruolo della fede nell’educazione dei figli e nell’edificazione complessiva di alti ideali sociali e morali. Nel libro del professor Cardia si dice che il futuro dell’Europa unita dipende proprio dalla capacità di tener conto e considerare le tradizioni e le differenze di ciascun Paese. Le ricerche condotte dall’autore vanno ben oltre l’analisi del procedimento legale. Nel libro, fra le altre cose, viene esaminato il senso teologico della crocifissione quale simbolo comune della cristianità, il suo significato come eredità spirituale dell’Europa. Nel descrivere il significato fondamentale della Croce per la cultura europea, l’autore si rivolge anche alle opere di san Filarete di Mosca.

La sua attenzione alla cristianità ortodossa non è casuale poiché proprio nei Paesi di tradizione ortodossa fu fatto l’orribile tentativo di cancellare completamente la fede da tutti gli ambiti della vita sociale. Né la Russia né gli altri Paesi dell’Europa orientale che hanno espresso contrarietà alla sentenza della Corte europea contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole vogliono che ciò si ripeta. Particolare attenzione nell’opera di Cardia viene dedicata ai problemi dell’edificazione di una società basata sulla concordia interreligiosa in Europa che deve rendere possibili e non reprimere le libere manifestazioni della vita religiosa. Il libro riporta argomentazioni a favore della necessita’ di considerare il contributo eccezionale dato dalla cristianità alla formazione della civiltà europea. Da tale posizione viene esaminata l’attuale prassi adottata dalla Corte europea per i diritti umani nel campo della tutela della libertà di coscienza e di opinione.

Il libro L’identità religiosa e culturale europea. Il caso del crocifisso non perde la sua attualità anche al termine del procedimento legale relativo al caso 'Lautsi contro l’Italia'. In Europa i cristiani continuano a dover affrontare tentativi di limitazione arbitraria dei loro diritti dovuti all’abuso o alla falsa interpretazione del principio di laicità. Non solo i leader religiosi cristiani, ma neppure gli europei capaci di riflettere e che sono chiamati a comprendere e difendere la propria storia e la propria cultura devono rimanere indifferenti di fronte ai casi di cristianofobia. Se la comunità scientifica del nostro continente non perderà la capacità di produrre opere scientifiche ed artistiche del livello del lavoro del professor Carlo Cardia, ciò sarà un indubbio segno che l’Europa moderna è disposta a difendere la propria identità cristiana, operando in tal modo per il futuro di tutta la civiltà cristiana.

Hilarion*, sua Eminenza il Metropolita di Volokolamsk. Presidente del Dipartimento per le Relazioni Esterne del Patriarcato di Mosca



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05/07/2011 09:44



Il Papa, la filosofia antica e la novità radicale del cristianesimo

L’attesa finalmente compiuta dell’«amico perfetto»

Nella sua bellissima omelia di mercoledì il Papa ha trattato il tema dell’amicizia tra Dio e l’uomo: infatti, nel Vangelo Gesù dice: «Non vi chiamo più servi, ma amici». Ora, ha aggiunto Benedetto XVI, l’amicizia consiste nel «volere le stesse cose e non volere le stesse cose [...] è una comunione del pensare e del volere». Con questa definizione il Papa si è esplicitamente rifatto agli antichi ma, nello stesso tempo, è ben consapevole della novità radicale della dottrina cristiana dell’amicizia con Dio. Mentre noi, forse, dopo venti secoli di cristianesimo, non ci rendiamo conto della rivoluzione introdotta da questo annuncio evangelico. Pertanto può forse essere utile confrontarlo con il pensiero dei due più grandi filosofi dell’antichità, Platone e Aristotele.

Platone ha chiamato Dio il "Primo Amico", ma senza immaginare che Dio potesse offrire la sua amicizia all’uomo: impiegava piuttosto questa espressione per designare l’oggetto dell’anelito di coloro che cercano di ascendere al congiungimento con il divino. È vero che ha talvolta parlato di una qualche premura divina verso l’uomo, ma non ha mai pensato che Dio si rapportasse da amico verso l’essere umano, men che meno che per l’uomo potesse dare la vita.

Forse glielo ha impedito la concezione greca dell’amore (che egli recepisce salvo pochi spunti in contrario), secondo cui l’amore è desiderio, è tentativo di eliminare un’imperfezione, una mancanza. Dunque Platone non riusciva ad attribuire a Dio quella forma di amore che si chiama amicizia, pena introdurre in Dio l’imperfezione. Per questo stesso motivo, anche Aristotele nega che Dio possa amare l’uomo e, salvo qualche cenno non approfondito, afferma che Dio non ama l’uomo e che nemmeno lo pensa. E quando questi due grandissimi pensatori accennano a una qualche premura di Dio per l’uomo, essa riguarda solo gli uomini giusti e non i malvagi.

Il cristianesimo, invece, introduce l’idea di un Dio che compie una discesa per amore verso l’uomo, fino alla morte di Cristo in croce, e pensa nitidamente, senza il minimo tentennamento, l’amore come dono gratuito. Di più, una delle Persone divine, lo Spirito Santo, è l’Amore del Padre e del Figlio. Per il cristianesimo «Dio è amore» (1 Gv 4,8), amore perfetto ed esclusivamente generoso che ama ogni uomo, anche quello malvagio.

Resta però un problema. Come può esserci amicizia tra Dio e l’uomo, vista la loro enorme differenza, quando l’amicizia richiede proprio la somiglianza tra gli amici? Aristotele aveva ben chiaro questo problema e perciò ha escluso con sicurezza la possibilità di una relazione amicale tra Dio e l’uomo. Sul piano delle possibilità di comprensione della ragione era nel giusto. Infatti, la ragione umana non poteva da sola sapere che l’amicizia tra uomo e Dio è invece possibile: sia in quanto Dio si è fatto simile all’uomo, incarnandosi e assumendo tutto della condizione umana fuorché il peccato, sia perché la grazia divina eleva l’uomo a partecipare (in qualche misura) alla vita di Dio, rendendolo simile a sé.

Così, il cristianesimo esaudisce l’umano desiderio naturale di avere un amico perfetto, come può esserlo soltanto Dio. Il Dio cristiano è davvero il Migliore Amico, sia perché non ha nulla da guadagnare dal rapporto con l’uomo (in quanto è già perfetto), dunque può essere totalmente generoso, sia perché Dio (essendo Onnipotente) conosce, vuole e fa il nostro bene meglio di chiunque: a volte – come nota san Paolo – «noi non sappiamo nemmeno cosa domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili».


Giacomo Samek Lodovici

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12/07/2011 11:49



(©L'Osservatore Romano 11-12 luglio 2011)

San Benedetto gettò i semi per una trasformazione sociale e culturale

Così il monachesimo costruì l'Europa
di TIMOTY VERDON







Normalmente le grandi chiese - le basiliche romane, le cattedrali diocesane e i più importanti santuari - sono espressioni universali della vita del popolo di Dio, accessibili a tutti. Ma il cristianesimo ha valorizzato anche forme di vita religiosa a cui non tutti sono chiamati, sapendo che "abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi" (Romani, 12, 6). Così dal III-IV secolo è stata accolta la volontà di alcuni di condurre una vita cristiana più austera, in ideale prolungamento dell'era eroica dei martiri, chiusasi con l'Editto di Milano del 312. Prima in Egitto, poi in Italia e nel sud della Francia, singoli eremiti, gruppi di eremiti e comunità unite intorno a un padre spirituale, definirono man mano lo stile di un'esistenza focalizzata unicamente su Dio, le cui componenti principali erano la preghiera, lo studio e il lavoro agricolo o artigianale.

Nasce il monachesimo cristiano e con esso un nuovo tipo di architettura ecclesiastica, il monastero, composto di una chiesa, di abitazioni per i monaci, e di ambienti funzionali alla vita comunitaria. E negli stessi secoli in cui le città dell'antico impero si spopolano per l'avanzata di popolazioni nomadi provenienti dall'Europa settentrionale e dalla Persia, nel deserto vengono fondate vere e proprie cittadelle monastiche: centri non solo spirituali ma anche intellettuali e artistici che conservavano ed elaboravano in senso cristiano quanto era rimasto della cultura classica.

Di fondamentale importanza in questo processo fu il contributo dell'Italia, dove vide la luce intorno al 480 l'uomo che la Chiesa considera il patrono d'Europa, san Benedetto da Norcia. Autore della Regula monachorum - che nel primo medioevo, era il più diffuso codice di comportamenti religiosi dopo il Vangelo - Benedetto non solo fondò numerosi monasteri, ma gettò le fondamenta di un sistema sociale e culturale destinato a plasmare l'identità cristiana di intere popolazioni, soprattutto nelle campagne. Mentre infatti nelle città del IV-V secolo esistevano già comunità cristiane stabili, con una storia alle spalle e un senso della propria dignità, la conversione delle zone rurali era ancora incompleta duecento anni dopo.

Per capire il ruolo del monachesimo nella penisola, è importante cogliere le condizioni dell'Italia cristiana all'epoca di Benedetto e nei secoli successivi. Le devastazioni della guerra tra due popoli invasori, i bizantini e i goti (540-568), nonché la violenza degli invasori longobardi (568-650) e le depredazioni saracene lungo le coste meridionali e occidentali (IX-X secolo), lasciarono la memoria ma non più la realtà dell'Italia romana. Cambiò perfino la secolare rete viaria: scendendo dal nord per i valichi appenninici, i longobardi crearono nuove direttrici legate ai loro centri di potere in Lombardia. Le nuove vie longobarde permettevano ai messi reali di muoversi senza sconfinare nel vasto territorio a est controllato dai bizantini. Al servizio della nuova rete viaria, i re longobardi fondarono monasteri lungo i nuovi percorsi tracciati per l'esercito e per i messaggeri reali, completando così il lavoro dei vescovi locali che, dal V al VI secolo avevano creato sistemi di chiese e collegiate rurali dotate di patrimoni terrieri. Dopo la conversione alla fede cattolica della regina Teodolinda nel VII secolo, la nuova rete viaria si orientò verso Roma, e venne a formarsi il nucleo di ciò che in seguito verrà chiamata la Via Romea o Francigena, che nei suoi molteplici percorsi costituirà la strada maestra di principi, mercanti e pellegrini tra il X e il XIV secolo. Lungo tutto il percorso, annessi ad abbazie "regie" o autonome, nacquero xenodochia e "spedali" che favorirono la ripresa di scambi culturali e commerciali. I diari di viaggio dell'arcivescovo di Canterbury Sigerico, dell'abate islandese Nikulas di Munkathvera, del re Filippo Augusto di Francia fanno intuire i motivi per cui, ad esempio, troviamo riflessi d'architettura borgognona in Lombardia e Toscana, tedesca a Molfetta, pisana a Siponto e Troia.

La conquista del regno longobardo da Carlomagno, sigillata con la presa di Pavia nel 773-74, rafforzerà l'orientamento monastico dello sviluppo religioso nei secoli IX-XII, nell'Italia settentrionale e centrale come in tutto l'impero affidato al re dei Franchi da Papa Leone III nell'anno 800. Prescindendo dall'attribuzione a Carlo Magno in persona di numerose abbazie, rimane vero che l'organizzazione amministrativa del Sacro Romano Impero favoriva l'espansione della rete monastica: i carolingi e, dopo di loro, gli ottoniani si servirono dei monaci nell'estendere il nascente sistema feudale su cui poggiava il loro potere.

Soprattutto con la diffusione di un'unica "regola" monastica, l'influsso dei monaci sulla vita spirituale d'Europa si fece determinante. L'equilibrio benedettino tra preghiera e lavoro venne comunicato ai feudatari imperiali con terre confinanti e ai contadini; in Italia, il silenzio e la laboriosità della vita rurale ne echeggiava lo spirito fino all'inizio del XX secolo.
L'indole comunitaria del monachesimo benedettino ha poi favorito lo sviluppo di precise caratteristiche umane e sociali nella popolazione. L'aiuto fraterno, l'ospitalità ai viaggiatori, l'attenzione ai poveri di ogni tipo, sono tra gli elementi della Regola di san Benedetto che in Italia come altrove si tradussero anche in cultura popolare.

In modo analogo, i laboratoria monastici gettarono le basi di quella "rivoluzione industriale" che, insieme all'embrionale attività bancaria, dal secolo XIII in poi farà di alcune città lombarde e toscane centri propulsori di vita economica e culturale al livello europeo.
Nei secoli intorno al Mille predominava l'influsso dei monasteri, che in alcuni casi erano, di fatto, delle vere e proprie città. L'abate islandese Niklaus, scendendo la penisola verso 1154, descrive "Montakassìn" (Montecassino) come "un grande monastero con una fortificazione tutt'intorno, e, all'interno, dieci chiese": era l'abbazia ricostruita tra il 1066-1071 dall'abate, Desiderio, figura di singolare peso ecclesiale e politico all'epoca. Dal 1059 cardinale e vicario pontificio presso i monasteri dell'Italia meridionale, Desiderio infatti lavorò per riconciliare i Papi con l'imperatore Enrico IV (umiliato da Gregorio VII a Canossa nel 1077), arruolando a questo scopo principi normanni quale Roberto Guiscardo, duca d'Apulia, con cui godeva di buoni rapporti. Ma il suo vero obiettivo rimase la riforma della Chiesa promossa sin dall'inizio del secolo da santi monaci quali Giovanni Gualberto e Pietro Damiani nonché dai Papi Vittore II (1055-1057), Stefano IX (1057-1058), Niccolò II (1058-1061), Alessandro II (1061-1073) e Gregorio VII (1073-1085).






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Pakistan e religione

Asia Bibi, nuovo appello per reclamare giustizia


A poco più di due anni dal suo arresto avvenuto il 19 giugno del 2009, dopo 755 giorni trascorsi in cella, il “caso” di Asia Bibi continua ad essere focale nell’attenzione del mondo verso la difficile realtà delle minoranze in Pakistan. Indebolita nel fisico e prostrata dalle minacce e dalla condizione di clandestinità in cui la famiglia è costretta a vivere, la donna non ha tuttavia rinunciato a pregare e a lottare. Nei giorni scorsi il suo avvocato ha rivolto un altro appello formale contro la sentenza capitale comminata nel novembre dello scorso anno, pur sapendo che la pressione fondamentalista è al momento elemento decisivo nell’atteggiamento delle autorità e dei giudici nella vicenda. «L’influenza dei radicali religiosi è troppo forte, solo un miracolo può salvarla, secondo l’opinione di un esperto legale citato da AsiaNews.

L’avvocato S.K. Chaudhry ha nuovamente consegnato la richiesta di appello dopo la sostituzione improvvisa di quattro giudici dell’Alta Corte di Lahore, capoluogo del Punjab. Chaudhry aveva presentato a gennaio un primo appello contro le prove consegnate per sostenere la condanna, a suo parere «palesemente false». Nel silenzio ormai pesante delle autorità, con una condanna a morte decretata dai radicali estremisti assai più concreta di quella comminata dai giudici di prima istanza nel novembre scorso, Asia Bibi continua la sua lunga detenzione in segregazione, ancora più stretta dopo che lo scorzo marzo un cristiano condannato all’ergastolo per blasfemia, Qamar David, è deceduto in circostanze sospette nella prigione centrale di Karachi.



«È fragile e può a malapena parlare, ma mantiene una forte fede in Dio e non ha perso la speranza», hanno fatto sapere il marito e una delle figlie che recentemente l’hanno visitata in carcere. Ashiq Masih ricorda come «Bibi chiede ogni volta dell’Alta Corte e ogni volta devo dirle con dispiacere che stiamo ancora aspettando che il tribunale si occupi del caso». «Siamo costretti a pagare la conseguenza delle determinazione nella fede di mia madre. Tuttavia preghiamo per lei e manteniamo la speranza che un giorno saremo di nuovo insieme per vivere normalmente – ha riferito la figlia maggiore ad AsiaNews –. «Ogni volta che sento parlare di persecuzione o di blasfemia sono terrorizzata perché temo che qualcosa possa capitare a mia madre». Un rischio concreto ed elevato che il carcere sembra accrescere anziché ridursi.

Come sottolinea un legale impegnato per i diritti delle minoranze, Saleem Murtaza, «il ritardo dell’Alta Corte nell’affrontare il caso di Asia Bibi, è dovuta alla pressione id estremisti e guide religiose. C’è la possibilità concreta che il tribunale possa confermare la pena capitale, magari anche perché intimidito dalla pressione degli estremisti e dalla taglia offerta per l’uccisione di Asia. La chiusura dei tribunali per 15 giorni in agosto (periodo di Ramadan) e un’altra settimana per una ricorrenza musulmana non fa sperare in una soluzione in tempi brevi».

Dopo l’uccisione di Shahbaz Bhatti, compianto ministro federale per le Minoranze, sembrano essersi chiuse le porte a qualunque ipotesi di revisione della “legge antiblasfemia” ma non per questo la pressione sulle minoranze è calata. Con la fine del ministero per le Minoranze il 30 giugno, ufficialmente per rendere effettivo il processo di “devolution” dei poteri del governo centrale, potrebbe aprirsi una nuova fase nei rapporti tra Stato e componenti religiose minoritarie. In questa prospettiva, gli attivisti cattolici stanno cercando nuove strategie sotto la guida di Paul Bhatti, fratello del ministro assassinato, che mettano al centro istruzione, sicurezza, rispetto delle libertà civili e tutela legale.

Stefano Vecchia
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