A parte alcuni folli negazionisti – che spesso lo sono solo per interesse e in Italia non sono nemmeno così pochi, circa il 16% – la maggior parte delle persone sa che la crisi climatica è la più grande minaccia che la civiltà umana oggi si trovi a dover affrontare. Quello che spacca la platea, semmai, è l’atteggiamento verso questa minaccia: ci sono i pessimisti, a volte così sfiduciati da abbandonarsi all’immobilismo, oppure in preda all’ecoansia; ci sono i cittadini giustamente preoccupati che chiedono un’azione politica decisa; ci sono coloro che, con fiducia, fanno quel che possono impegnandosi così a cambiare le cose quotidianamente nel loro piccolo, magari influenzando le persone che hanno vicino; e poi ci sono gli inguaribili ottimisti, coloro che non rinunciano al grande mito – rassicurante quanto pericoloso – del potere positivo delle possibilità tecnologiche dell’essere umano, delegando a qualcun altro la loro responsabilità sull’ecosistema. Resi del tutto miopi – anche se spesso si credono visionari – dall’antropocentrismo, quello stesso atteggiamento che ci ha portati all’attuale livello di degrado ambientale e che paradossalmente ci promette una soluzione avveniristica che sembra più una scommessa molto rischiosa. Quando sento parlare questi ultimi, che pensano che prima o poi qualche miracolosa soluzione porterà alla salvezza, mi viene in mente Mario Monicelli, che ci avvertiva che la speranza è una trappola. A dirlo in questo caso, però, sono gli scienziati e i climatologi, che mettono in guardia dalle presunte soluzioni tecnologiche della geoingegneria e ci ricordano che le strategie “reali” per la crisi climatica le conosciamo da anni, ma non le stiamo utilizzando.

A chiedere ai governi di occuparsi di queste – la transizione energetica, l’abbandono delle fonti fossili e quindi in generale una radicale e necessaria trasformazione del sistema economico e produttivo – è stata il mese scorso, nel suo ultimo report, la Climate Overshoot Commission – organizzazione di cui fanno parte leader mondiali che si occupano di mitigazione del clima – che ha anche chiesto che la scienza possa continuare a indagare sugli strumenti della geoingegneria per dovere di conoscenza, ma senza che i Paesi li impieghino. Anzi, ha chiesto una moratoria sul loro utilizzo, visti i pericoli che comportano, compresi aggravamenti di fenomeni ambientali già in atto a causa della crisi climatica, come mutamenti di correnti e monsoni, un’ulteriore riduzione delle precipitazioni, l’alterazione delle correnti marine e il peggioramento dei tassi di inquinamento atmosferico.

“Geoingegneria” è in realtà un termine generico, che include una varietà di interventi sull’ambiente per mitigare gli effetti della crisi climatica, dal semplice rimboschimento alle tecniche più futuristiche, che si distinguono in due macrocategorie: la Carbon Dioxide Removal, o CDR, cioè la rimozione del diossido di carbonio dall’atmosfera per ridurre l’effetto serra, e il Solar Radiation Management, o SRM, ovvero la gestione della radiazione solare. Se alcune tecnologie di assorbimento dell’anidride carbonica, poco invasive e che non destano preoccupazione, sono già in uso da circa dieci anni, diverso è il discorso per quelle che agiscono sui raggi del sole, che vengono fatte rientrare nella cosiddetta geoingegneria solare. Proposta nel 2006 dal chimico dell’atmosfera Paul Crutzen, questa consiste in azioni di schermaggio o deviazione dei raggi solari in vari modi, che vanno dallo spruzzare una soluzione di sale marino nelle nubi per schiarirle aumentandone la capacità riflettente, ad assottigliare i cirri in modo che trattengano meno calore. Il metodo più studiato, però, è l’iniezione di aerosol, per esempio di anidride solforosa, nella stratosfera (tra gli 8 e i 50 km dalla superficie terrestre), tramite palloni aerostatici. L’effetto sarebbe, in ogni caso, un attenuamento della luce solare e, quindi, un abbassamento delle temperature. Qualcosa di simile, in pratica, a quanto accadde in seguito all’eruzione del Pinatubo, nelle Filippine, nel 1991, quando le polveri rilasciate comportarono un raffreddamento del Pianeta di 0,5°C per due anni.

Eruzione del Pinatubo, Filippine, 1991

Alcune di queste tecniche di schermaggio sono state citate per la prima volta nel rapporto quadriennale di valutazione del Protocollo di Montreal per la protezione dell’ozono pubblicato l’anno scorso, in cui si parla sia di rischi che di benefici; e l’ultimo rapporto dell’IPCC parla della SRM come di una tecnologia potenzialmente efficace nel ridurre la quantità di radiazione solare assorbita dalla Terra dell’1-2%, ma complessa, perché può avere effetto anche su altre variabili, come le precipitazioni. Eppure, l’interesse sul tema è serio, tanto che, nella primavera del 2022, è stata persino costituita una Commissione mondiale per la gestione dei rischi legati al superamento climatico – cioè la soglia di 1,5°C di aumento delle temperature rispetto alle medie preindustriali – che ha iniziato, anche se piuttosto in sordina, a lavorare su temi quali le possibili condizioni di impiego delle tecniche di geoingegneria.

Se questo rappresenta la presa di coscienza che un ulteriore aumento delle temperature sia ormai inevitabile e la spettacolarità fantascientifica di alcune soluzioni ipotizzate sembra confermare la gravità della situazione, il giornalista francese Stéphane Foucart trova preoccupante che alcune proposte, più simili a una distopia che a una risposta scientifica vera e propria, vengano effettivamente prese sul serio. Anche gli stessi scienziati, in effetti, non supportano la geoingegneria solare come soluzione: ritengono infatti che sia importante studiarla, ma anche che ogni decisione in merito dovrebbe ponderare tutte le implicazioni etiche, politiche, economiche e sociali e valutare attentamente i possibili effetti collaterali, che vanno da un raffreddamento eccessivo delle temperature ad altri danni ambientali, compresi possibili effetti di disturbo della biodiversità, fino a possibili conflitti di potere. È questo il messaggio, non a caso, di due lettere aperte indirizzate da decine di ricercatori e scienziati ai leader mondiali e alle Nazioni Unite per chiedere un accordo di non-utilizzo della geoingegneria solare, e più in generale per chiedere – in particolare nella comunicazione più recente, dello scorso febbraio, firmata da più di 70 esperti – approfondimenti su questa tecnologia, sui suoi potenziali effetti benefici e quelli collaterali, ma con l’impegno dei governi a non immischiarvisi. Al momento, infatti, chi si occupa di questi temi fatica a trovare fondi; bisogna distinguere, poi, tra i finanziamenti pubblici per università e centri di ricerca, da quelli provenienti da aziende private, che, avendo l’obiettivo del profitto economico, potrebbero non preoccuparsi troppo della sicurezza ed efficacia degli strumenti che vogliono innanzitutto vendere; le start-up che sperimentano sul tema, poi, spesso esulano dalle linee guida della ricerca accademica, cosa che pone ulteriori interrogativi.

Questo, innanzitutto, perché della geoingegneria solare non possiamo davvero conoscere tutte le conseguenze, essendo impossibile testarla in modo realistico; tanto che nel 2021 l’Università di Harvard ha dovuto rinunciare a un esperimento di iniezione di aerosol nelle nubi che stava conducendo in Svezia a causa delle proteste sia degli scienziati che degli abitanti. Anche se la tecnologia si rivelasse efficace, infatti, le conseguenze su altre variabili ambientali potrebbero comportare enormi cambiamenti. Al contrario, l’efficacia sarebbe limitata al clima e non toccherebbe direttamente altri problemi, tra cui l’acidificazione (comunque connessa alle temperature) e l’inquinamento degli oceani, su cui invece bisognerebbe intervenire riducendo la pesca indiscriminata e ben poco regolamentata e normando l’estrazione di minerali dai fondali. Per questo non ci si deve aggrappare a una sola tecnologia pensando che possa risolvere la situazione. E anche per questo il presidente della Climate Overshoot Commission, Pascal Lamy, chiede il rispetto del principio di precauzione, specialmente su temi controversi come questo. Non solo per la difficoltà di calcolare e prevedere le possibili conseguenze ambientali, ma anche per il peso che strumenti così potenti possono avere nelle mani sbagliate, per esempio in quelle di un governo autoritario o di stati in contesa tra loro, per i quali la geoingegneria potrebbe essere uno strumento di affermazione di supremazia.

A preoccupare più di tutto, infatti, devono essere i possibili scenari politici sul medio termine: basti pensare, per esempio, come si chiede sempre Foucart, a cosa accadrebbe se tra qualche decennio, magari per una guerra o una crisi economica come quelle che in parte abbiamo già vissuto, si dovessero fermare le operazioni complesse e costose di geoingegneria solare; le temperature, probabilmente, ricomincerebbero a salire ancor più rapidamente e alcune aree del Pianeta sarebbero più penalizzate di altre, cosa che, oltre a essere ingiusta, potrebbe anche scatenare altri conflitti, di cui non abbiamo certo bisogno. La geoingegneria solare, cioè, potrebbe aggravare ancora di più le disparità già esistenti e, se la bilancia geopolitica non dovesse cambiare nei prossimi decenni, poi, possiamo già immaginare che alcuni Paesi avrebbero un maggiore peso decisionale sull’uso delle tecnologie solari e, quindi, esserne avvantaggiati. La crisi climatica e la lotta per contrastarla sono questioni globali inscindibili dal discorso geopolitico, sia per le conseguenze che possono avere su tutto il mondo sia per gli interessi politici ed economici che vi sono intrecciati. Per questo, quando si tratta di strumenti potenti e tecnologie controverse, un problema che non si può evitare di porsi riguarda proprio chi avrà il controllo delle soluzioni tecnologiche, chiedendosi se (e, nel caso, come evitare che) qualche Paese possa decidere di usare unilateralmente questi strumenti, a proprio vantaggio o magari a danno dei Paesi rivali. La storia della bomba atomica, in fin dei conti, dovrebbe pur averci insegnato qualcosa.

Mentre ci infiliamo in questioni complesse legate a delicati equilibri politici, inseguendo la speranza di una soluzione “miracolosa” al riscaldamento globale, rischiamo di perdere altro tempo, energie e investimenti preziosi, come dimostrano i continui record di temperatura mensili, bruciati uno dopo l’altro, togliendo risorse ad altre strategie più efficaci e sicure a partire dagli interventi sulle banche, dai tagli ai finanziamenti dei settori inquinanti, dalla lotta contro la deforestazione. È vero che le tecnologie di gestione delle radiazioni solari possono avere effetti molto rapidi, ma si parla comunque di 4-5 anni prima di vedere i primi risultati, un tempo che non possiamo sprecare, ipotecandolo nella speranza di una soluzione definitiva per cui questa tecnologia potrebbe al massimo essere usata come ulteriore strumento nel contesto di una strategia più ampia di mitigazione climatica – e in ogni caso non dovrebbe essere una scusa per continuare a inquinare. La stessa Climate Overshoot Commission invita piuttosto i governi ad abbandonare i combustibili fossili, a investire più risorse nell’adattamento alle condizioni meteorologiche estreme, eventualmente affiancando questi programmi con gli strumenti per l’assorbimento di anidride carbonica, lasciando perdere gli strumenti più visionari e potenzialmente pericolosi da valutare solo come ultima spiaggia.

La prospettiva della geoingegneria per certi versi è rassicurante, perché ci libera dalla responsabilità di cambiare stile di vita e modello socio-economico e perché ci culla nell’illusione di avere un onnipotente ruolo salvifico. Ma non possiamo nasconderci dietro la speranza ignorandone i possibili effetti collaterali, né perdere tempo con false soluzioni come in un remake di Don’t Look Up. Inoltre, questo sistema, oltre all’inquinamento ha rivelato di avere molti altri aspetti estremamente negativi. Dovremmo applicare immediatamente e senza remore le soluzioni che conosciamo da decenni, intervenendo sui settori più inquinanti: dalla mobilità alla produzione energetica, passando per il sistema alimentare. Non possiamo accettare che chi domina questi comparti abbia un tale peso politico ed economico da ostacolare la transizione ecologica pur di non rinunciare a un po’ di quel potere. Oppure forse abbiamo davvero gettato la spugna, a parte rari casi esemplari, e stiamo davvero rinunciando a fare seri tentativi di transizione – un’enorme difficoltà, certo, con le spaccature e le guerre che lacerano l’Europa e il mondo – perché tanto ormai ci consideriamo spacciati e preferiamo puntare su soluzioni tecnologiche dai costi presumibilmente enormi e dalle conseguenze incerte, pur di non cambiare la nostra vita.