da Rassegna Stampa Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
DI GIANLUCA MERCURI
Facebook è in crisi e il perché è evidente:
non regge la concorrenza di Tik Tok tra i giovani, e fatica a contenere quella di
Telegram tra tutte le età. Un colpo durissimo gliel’ha dato Apple, le cui nuove regole sulla privacy, applicate al sistema operativo degli iPhone, impongono che gli utenti diano il permesso di farsi tracciare, col risultato di far crollare gli annunci pubblicitari mirati e — di ben 10 miliardi di dollari — gli introiti del social.
Ma questi sono gli effetti. La causa è più ampia, connessa com’è alla storia di questa avventura che in 18 anni ha cambiato Internet e il nostro modo di vivere. Connessa, più che mai, al profilo del suo boss, che non fu l’inventore ma il predatore di questa e di mille altre idee.
Mark Zuckerberg è un artista nel copiare e un genio nel rubare, ma non sa inventare.
Il vero problema di Fb, insomma, è l’innovazione. Farhad Manjoo, uno dei giornalisti americani che vanno seguiti per capire l’evoluzione di Big Tech, lo dice con chiarezza, ripercorrendo questa storia importante, la storia di un’impresa grande e antipatica, prepotente e furbastra. Ma appunto grande, in ogni senso. Eppure, scrive il columnist del Nyt,
«sembra proprio che questa azienda non sappia inventare nuove cose di successo». Le idee su cui ha marciato e su cui ha ammucchiato miliardi — WhatsApp, Instagram e soprattutto il suo succo prezioso, Instagram Stories — sono nate altrove e Facebook se le è prese in due modi: copiandole o comprandole.
Il problema è che
«comprare e copiare altre idee sta diventando sempre più difficile». Su Facebook sono accesi i riflettori degli antitrust di tutto il mondo, un’attenzione che rende molto complicate le nuove acquisizioni.
Ma anche copiare — sopratutto copiare bene — non è più tanto semplice: «Le più grandi applicazioni di Facebook sono così piene di funzioni clonate da altri posti che stanno diventando caotiche e non focalizzate».
E quindi ha voglia Zuck di presentare il «metaverso» come la prossima Big Thing di Internet e la realtà virtuale rivista da lui come la prossima dimensione ineluttabile delle nostre vite:
se guardano la sua inventiva, gli investitori non possono che scappare.
Non è cattiveria verso quest’uomo dotato (e che comunque la cattiveria la attrae col suo cinismo). È proprio la sua storia, la sua storia recente. Almeno, prima, quando rubava riusciva poi a metterci del suo. Non era sua l’idea del social, ma lo era quella di farla uscire dal recinto universitario per cui era stata pensata.
Rivoluzionaria fu poi l’aggiunta del News Feed, la sezione che raggruppa ciò che interessa all’utente, a cominciare dagli amici. Oggi pare scontato ma non lo era: «Sui vecchi social network, come Myspace, dovevi visitare le pagine di ogni tuo amico per vedere cosa stesse combinando». News Feed, scrive Manjoo con giusta enfasi, «
ha inaugurato qualcosa di profondo nelle relazioni umane: una finestra in tempo reale, disponibile per chiunque di noi, nella vita sociale di tutti noi».
Dopo la quotazione in Borsa di dieci anni fa, però, è cambiato tutto: da quel momento la strategia di Zuck
ha ignorato l’innovazione e puntato selvaggiamente sull’aumento della base di utenti e dei ricavi pubblicitari. Il successo è stato davvero planetario, e le copertine dei magazine che lo raffiguravano con la corona imperiale esprimevano sia il suo delirio di onnipotenza sia la sua onnipotenza reale, altro che virtuale. D’altronde, per aggiungere novità bastava che ci arrivassero gli altri: poi il Grande Rapace planava a papparsele. «
Per molti anni, la strategia delle fotocopie ha funzionato bene. Non era nemmeno qualcosa di disonorevole: le migliori idee nella tecnologia — o, se è per questo, nella vita — sono spesso pastiche di molte idee diverse». E qui, a proposito dell’arte di Mark Zuckerberg, non si può che citare un modello di cui non può non aver tenuto conto: «
I buoni artisti copiano. I grandi artisti rubano», diceva
Steve Jobs. Che però era molto più creativo di Zuck, mentre la grandezza della macchina messa in piedi da Zuck, la sua vera arte, «risiede più nell’eccellenza operativa che nell’originalità».
Lo dimostra il caso di Instagram. Dieci anni fa, quando Facebook la comprò per un miliardo di dollari, «aveva solo 13 dipendenti, circa 30 milioni di utenti e nessun reddito». Sei anni dopo valeva 100 miliardi e oggi ha
un miliardo di utenti al mese. Gli stessi fondatori Kevin Systrom e Mike Krieger, quando se ne andarono sbattendo la porta perché non sopportavano più Zuck, ammisero che il loro prodotto era stato migliorato. Come?
Mettendoci dentro grandi idee altrui, chiaro. Le dirette vengono da pionieri appannati o defunti come Twitch e Periscope, le Stories da Snapchat. Proprio Snapchat (ora Snap), Zuckerberg ha cercato in tutti i modi di comprarsela. Non c’è riuscito, ma l’ha ammazzata mettendo le Stories in cima a Instagram. Ora «sta cercando di fare qualcosa di simile con Reels, il suo clone di TikTok», ma la sua reticenza con gli investitori fa pensare che non stia funzionando così bene.
Ma per capire lo stallo creativo dell’impero di Mark bisogna proprio affidarsi all’esperienza del giornalista: «Uso spesso Instagram, ma lo trovo sempre più disordinato.
È una colazione da cani fatta di un sacco di elementi social diversi, messi insieme in modo scombinato, un posto per foto permanenti, per storie effimere, per brevi video di influencer e persino per lo shopping. L’app di Facebook, nel frattempo, sembra una causa resa persa dal gonfiore: come un ristorante che fa troppi tipi diversi di cucina, cerca di fare così tanto che finisce per non fare quasi nulla di buono».
Accatastare trovate altrui, insomma, non funziona più come prima. E la strada delle acquisizioni ormai è impervia: quelle vecchie sono nel mirino delle agenzie regolatorie che, dopo averle consentite, ora ci vedono una «strategia monopolistica sistematica», e quelle nuove sono sempre più improbabili: «Non c’è quasi nessuna possibilità che i regolatori permettano a Facebook di comprare un altro potenziale rivale a breve». Ma il paradosso è che il ridimensionamento in corso, dagli utenti ai ricavi, rende secondo Majoo
sempre meno urgente un intervento contro l’azienda: «Il suo valore di mercato è appena sceso sotto i 600 miliardi di dollari, la soglia che i democratici alla Camera hanno scelto per nuove norme che frenino il potere di Big Tech». E perfino
il mercato della pubblicità digitale — ma questo lo diciamo sottovoce e incrociando le dita — secondo l’analista Ben Thompson sta uscendo pian piano dal dominio schiacciante di Google e Facebook ed è diventato più competitivo.
Ora il punto vitale è se Facebook-Meta riuscirà a (ri) scoprirsi innovativa con
la grande scommessa sulla realtà virtuale. Dopo aver copiato per anni, deve inventare perché «la sua macchina ciclostilata è inceppata». Dire se ci riuscirà è complicato. Intanto, suggerisce l’esperto del New York Times, potrebbe aiutare un cambio di slogan: da «Move fast, and break things» a «
Move fast, and make things».