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224) Jean Vidament (1944 - vivente)
siteducyclisme.net
indice di notorietà: **
paese: Francia
ciclista
Ha proseguito nella sua attività professionale dopo il battesimo? CARRIERA TERMINATA PRIMA DELLA CONVERSIONE
La letteratura Watch Tower ha mai fatto cenno a questo VIP? SI (Svegliatevi! 8/7/1993 pagg. 15-19)
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La carriera del bretone Jean Vidament, ritardata dalla chiamata alle armi e dalla necessità di sostenere economicamente la famiglia, inizia solo nel 1966, quando ha già 22 anni, e perdura fino al 1974, interrotta definitivamente da un incidente stradale.
Fra il 1966 ed il 1967 raccoglie i primi successi importanti: arriva due volte sesto al Tour de Picardie; partecipa alla Parigi-Nizza e arriva secondo in tre diverse competizioni nazionali, fra cui il Tour de Bretagne, un percorso di 166 km fra Le Hinglé e Louvigné-du-Désert. L'anno successivo entra ufficialmente nel ciclismo professionistico come tesserato della squadra di Jan Janssen (trionfatore del Tour de France). Il 1968 corrisponde verosimilmente al suo massimo momento di forma fisica e tecnica. Partecipa a 8 diverse competizioni, piazzandosi sempre sul podio, e tre volte arrivo primo (a Hénanbihen, a Paimpol - sua città natale - e a Le Quillio); ma soprattutto il 1968 segna l'esordio di Vidament nel Tour de France.
Il 1969 è la volta della Parigi-Roubaix e della Flèche Wallonne, in Belgio, e in quell'anno partecipa di nuovo al Tour de France (il primo vinto da le cannibale Eddy Merckx, il più grande ciclista di tutti i tempi). Ottiene buoni risultati, arrivando fra l'altro in 16a posizione (su 150 ciclisti alla partenza) nella tappa di Mourenx e in 19a in quella di Revel. Lo stesso anno è primo nel Grand Prix Cycliste des Filets Bleus, che si corre a Concarneau.
Il percorso completo, da Angers a Parigi della 59° edizione del Tour de France (1-23 luglio 1969),
seconda delle 5 edizioni alle quali Vidament partecipò e in cui registrò il suo miglior rendimento medio individuale.
it.wikipedia.org
Il Tour de France del 1969 resterà la migliore esperienza del venticinquenne Vidament nella massima competizione ciclistica mondiale su strada. Il suo Giro di Francia del 1970 si ferma solo alla 6a tappa, malgrado un buon 10° posto a Rouen; l'anno successivo completa il tour ma, fatto salvo un eccellente 7° posto nella tappa di Poitiers (la 18a), non riesce mai a piazzarsi nelle prime trenta posizioni. Nel 1972 Vidament partecipa ancora al Tour de France, ma abbandona la competizione dopo sole 2 tappe. In tutti e tre i casi, come già nel debutto del 1969, il Tour è vinto ancora da Merxks, che consegue perciò lo storico risultato di quattro trionfi consecutivi su altrettante partecipazioni.
Nello stesso anno Vidament conosce i testimoni di Geova. Il battesimo, insieme alla moglie Danielle, arriva nel 1976.
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Statistiche di Jean Vidament sul sito Cycling Archives. Di seguito una immagine tratta dallo stesso indirizzo.
www.cyclingarchives.com/coureurfiche.php?coureurid=16452
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Jean Vidament ha narrato la sua biografia nella Svegliatevi! dell'8/07/1993, pagg. 15-19 (v. di seguito).
Esperienza di Jean Vidament (Svegliatevi! dell'8/07/93, pag. 15-19 - CLICCA PER VISUALIZZARE
Gioie e dolori del ciclismo agonistico
PEDALAVO con tutte le mie forze e ansimavo, eppure non sentivo la fatica. Ero certo che ne valeva la pena. Dopo 25 chilometri di salita, in cima al passo del Gran San Bernardo, tra la Svizzera e l’Italia, ero in testa. Il mio allenatore mi fece segno dalla macchina che avevo qualche minuto di vantaggio sugli altri. Mi vedevo già vincere la tappa e indossare la maglia gialla del primo in classifica.
Davanti a motociclette e automobili, cominciai a scendere dall’altra parte a rotta di collo. A metà discesa imboccai una curva a velocità eccessiva. La ruota posteriore slittò e uscii di strada. Anche se dolorante, finii la tappa, ma dovetti dire addio alla maglia gialla e alla gloria. Non vinsi l’edizione del 1966 del Tour de l’Avenir.
Come crebbe la mia passione
Nacqui in Bretagna alla fine della seconda guerra mondiale. Nella Francia occidentale il ciclismo è un sport molto seguito, e la regione ha prodotto molti campioni. Da ragazzo guardavo le gare locali e non mi lasciavo mai sfuggire il Tour de France alla televisione. Quei ciclisti che si arrampicavano su impervi passi di montagna e poi si lanciavano lungo le discese più ripide mi sembravano dèi.
A 17 anni decisi di provarci anch’io. Con l’aiuto di uno che vendeva biciclette comprai di seconda mano la mia prima bici da corsa. Avevo un programma intenso: mi allenavo ogni domenica mattina e, durante la settimana, prima e dopo il lavoro. Dopo soli due mesi stavo alla linea di partenza della mia prima gara, con il cuore in gola. Sarei arrivato primo se il gruppo non mi avesse raggiunto solo 10 metri prima del traguardo! Per il resto di quell’anno mi piazzai tra i primi 15 in quasi tutte le gare a cui partecipai.
La stagione 1962 fu molto corta per me. Dopo tre mesi di gare e diverse vittorie fui chiamato per il servizio militare e trascorsi 18 mesi in Algeria. Tornato in Francia, passai il 1965 a riabituarmi alla bicicletta. Ma la stagione successiva ero ben deciso a provare di nuovo la gioia di ricevere il mazzo di fiori del vincitore.
Dal marzo 1966 in poi passai da una vittoria all’altra. Ogni volta che arrivavo primo o secondo in una gara guadagnavo punti che con il tempo mi avrebbero fatto passare a una categoria superiore, dove la concorrenza sarebbe stata più forte. A quel tempo, però, lavoravo con mio padre levigando pavimenti di legno. Era un lavoro molto faticoso che mi impediva di dedicare al ciclismo tutto il tempo che avrei voluto. Perciò, raggiunto il punteggio necessario per rimanere nella mia categoria, mi accontentai dei premi in denaro che ricevetti nelle restanti gare, ma mi lasciai battere per non essere promosso di categoria.
Una carriera rapida
Visti i miei risultati, tre squadre mi offrirono dei contratti. Io però rifiutai, per non abbandonare mio padre. Nondimeno, l’allenatore più insistente convinse mio padre a concedermi una settimana di ferie per partecipare a una difficile gara sui Pirenei, al confine tra Francia e Spagna. Ottenni un buon piazzamento, per cui proseguimmo in Spagna, dove vinsi il Giro della Catalogna per dilettanti. Pochi giorni dopo gareggiai nel Giro delle Baleari, vinsi la prima tappa e indossai la maglia del primo in classifica, solo per perderla l’ultimo giorno in una prova a cronometro perché la mia squadra si ritirò dalla gara.
Poi fu la volta della Route de France, nei dintorni di Nizza. Ottenni i migliori piazzamenti in molte tappe e vinsi il trofeo per il miglior scalatore. A motivo di tali buoni risultati fui scelto come uno dei dieci ciclisti migliori e fui invitato a rappresentare la Francia nel Tour de l’Avenir, la versione per dilettanti del Tour de France.
In quei due mesi la mia famiglia aveva ricevuto mie notizie solo attraverso le pagine sportive dei quotidiani. Pensando a mio padre e al fatto che mi aveva concesso solo una settimana di ferie, declinai l’offerta e me ne tornai a casa. Il mio allenatore e un giornalista sportivo, però, convinsero mio padre che io ero una delle speranze del ciclismo francese, per cui egli mi permise di partecipare alla gara. Mi sembrava di sognare! Pochi mesi prima ero un dilettante di terza o quarta categoria, e ora ero stato scelto per la gara ciclistica per dilettanti più importante del mondo! Come ho spiegato all’inizio, una caduta compromise le mie speranze in quel Tour del 1966.
Nel 1967 vinsi una decina di gare, partecipai alla Parigi-Nizza e arrivai quarto nel Tour du Morbihan, in Bretagna. Nel 1968, a 24 anni, firmai il mio primo contratto da professionista, entrando a far parte della squadra dell’olandese Jan Janssen. Partecipammo al Tour de France, e quell’anno Jan vinse. Nel frattempo, dopo una prova a cronometro disputata a Rennes, in Bretagna, incontrai Danielle, che era venuta a vedere la sua prima corsa ciclistica. Non fu l’ultima a cui assistette, perché l’anno dopo ci sposammo.
Come mi piaceva quella vita: lo spirito di squadra, la vita nomade, vedere ogni giorno nuove città e nuovi paesaggi! Non guadagnavo molto, ma non mi importava: mi bastava il piacere di gareggiare. Mi piazzai bene in diverse gare e speravo di vincere qualche corsa importante. Tuttavia, cominciai a rendermi conto che tra i ciclisti dilettanti e quelli professionisti c’è una differenza abissale.
I grandi campioni . . . e gli altri
Nella stagione 1969 gareggiai nella squadra del famoso ciclista francese Raymond Poulidor. Partecipai alle grandi “classiche” del ciclismo, gare della durata di un giorno: la Parigi-Roubaix e la Freccia Vallone, in Belgio. Nei passi montani tenni testa ai migliori ciclisti, terminando ragionevolmente bene diverse tappe. Tuttavia le più grandi soddisfazioni le provai vincendo le gare regionali in Bretagna, tra le folle di spettatori che amavo.
Ma contrariamente alle mie speranze, al pari di molti altri non avevo le doti fisiche di un grande campione. In una durissima tappa del Giro di Spagna dovetti ritirarmi a motivo della neve e della pioggia. Lì mi resi conto che i grandi campioni hanno quella marcia in più, quel che di speciale che permette loro di sopportare sia il caldo più afoso che il freddo più pungente. Non avevo, per fare un esempio, la stoffa di Eddy Merckx, il campione belga che dominava il panorama ciclistico dell’epoca. Lui ci surclassava di gran lunga. Infatti, nelle gare a cui partecipò anche lui vidi praticamente solo la sua schiena.
Solidarietà fra ciclisti
C’era solidarietà anche tra squadre avversarie. Lo provai di persona in una delle tappe più dure del Tour de France del 1969. La sera prima eravamo arrivati all’albergo stremati dopo una serie di dure tappe di montagna. La mattina dopo, la sveglia suonò alle sette. Come al solito, ci aspettava un’abbondante colazione tre ore prima della gara.
Alla partenza eravamo circa in 150, e tutti raccontavano i loro alti e bassi degli ultimi giorni, stando però attenti a non rivelare la strategia della squadra per la gara che stava per iniziare. La giornata si preannunciava spossante. Questa tappa partiva da Chamonix, ai piedi del Monte Bianco, e arrivava fino a Briançon, con 220 chilometri di strade alpine e tre grandi passi da attraversare.
Sin dall’inizio il ritmo fu molto sostenuto. Mentre salivo il Col de la Madeleine, un passo a 1.984 metri di altezza, sapevo che non sarebbe stata una buona giornata per me. Pioveva, e man mano che salivamo la pioggia diventava neve. In cima al passo, sei di noi di squadre diverse avevamo già accumulato diversi minuti di svantaggio rispetto ai primi. Congelati, cominciammo la discesa, con le dita così intirizzite che quasi non riuscivamo a frenare senza mettere un piede a terra. In fondo alla discesa, un ufficiale di gara ci segnalò da una macchina che se arrivavamo tardi saremmo stati senz’altro eliminati. Ero molto scoraggiato all’idea di veder finire il mio Tour de France in uno dei luoghi che più amavo, la montagna.
Anche se i nostri sforzi sembravano inutili, il ciclista più esperto fra noi ci esortò a non darci per vinti. Ci infuse coraggio, mise il gruppo in formazione e suggerì di fare a turno nel pedalare in testa al gruppo. Tenemmo duro. Quando arrivammo al servizio di rifornimento questo era già chiuso, ma non esitammo a dividere fra noi quel po’ di cibo che ci rimaneva.
Una volta ridiscesi a valle, la temperatura più alta ci diede rinnovato vigore. Le ore passavano, e davanti a noi quella stessa giornata ci aspettavano altri due passi montani: il Télégraph e il Colle del Galibier, rispettivamente a 1.670 e 2.645 metri. Sulla salita ci attendeva una sorpresa meravigliosa. A una curva, fra gli spettatori, riuscimmo a distinguere una massa multicolore. Sì, avevamo raggiunto gli altri! Superammo diversi che si erano arresi e altri che sembravano inchiodati al terreno. Notai una delle giovani speranze del Belgio a piedi, che spingeva esausto la sua bici. Io raggiunsi il mio caposquadra e finii la tappa piazzandomi ragionevolmente bene.
Tutto questo mi insegnò un’importante lezione che non ho mai dimenticato: Finché non si taglia il traguardo non esistono né vinti né vincitori. Inoltre, non dimenticherò mai lo spirito di solidarietà che esisteva, anche tra squadre avversarie.
I primi contatti con la Bibbia
Nel 1972 venni in contatto per la prima volta con il messaggio della Bibbia. Un ciclista di nome Guy, che aveva abbandonato da poco il ciclismo professionistico, venne a trovarmi e mi parlò della sua nuova fede. Gli dissi che non ero interessato e che ognuno crede che la propria religione sia la migliore. Guy mi mostrò qualche versetto biblico e rispose alle mie obiezioni dicendo che, proprio perché ci sono molte religioni che sostengono di basare le proprie credenze sulla Bibbia, dovrebbe essere facile valutare queste credenze alla luce della verità della Parola di Dio.
Avevo sentito parlare della Bibbia, ma essendo un cattolico non praticante pensavo che non avesse nulla a che fare con la mia religione. Tuttavia avevo l’impressione che quella conversazione fosse capitata al momento giusto, perché stava per arrivare un parente di mia moglie, un missionario cattolico con cui avremmo potuto parlare di queste cose.
Il parente di mia moglie confermò che la Bibbia era davvero la Parola di Dio. Ci mise però in guardia, perché secondo lui i testimoni di Geova erano brava gente ma sviavano gli altri. Quando rividi Guy gli chiesi se questo era vero. Lui mi spiegò che, a differenza di quanto mi era stato insegnato in chiesa, la dottrina dell’immortalità dell’anima umana non si trova nella Bibbia. (Ezechiele 18:4) Mi chiese anche perché il parente non usava il nome di Dio, Geova. — Salmo 83:18.
Fui sbalordito imparando che Dio ha un nome. Quando gli mostrammo quei versetti, il parente di mia moglie rispose che non bisogna prendere la Bibbia così alla lettera. Le nostre conversazioni con lui non proseguirono oltre, e Guy tornò a Parigi, dove lavorava.
Guy tornò in Bretagna un anno dopo e venne a trovarci. Riprese l’argomento con noi mostrandoci che la Bibbia era anche un libro profetico. Questo ci incoraggiò a studiarla più attentamente. Le nostre conversazioni cominciarono a farsi più regolari. Guy però dovette avere molta pazienza con me, perché la mia vita ruotava ancora attorno al ciclismo e a tutto ciò che questo comportava: amici, sostenitori, e così via. Inoltre le nostre famiglie, provenendo dalla Bretagna, regione molto attaccata alle tradizioni religiose, si opposero a questo nuovo interesse per la Bibbia.
Nel 1974 la mia carriera di corridore finì improvvisamente a causa di un incidente stradale. Questo ci fece riflettere su cosa era veramente importante nella nostra vita. Mia moglie ed io decidemmo di allontanarci dalla nostra città natale e dall’influenza delle nostre famiglie. A quel punto cominciammo ad assistere regolarmente alle adunanze nella Sala del Regno della congregazione di Dinan. Entrambi facemmo progresso nella verità, e ci battezzammo nel 1976.
Da allora ho avuto l’opportunità di parlare della Bibbia a diversi ciclisti della mia generazione. Inoltre, quando vado di casa in casa molti mi riconoscono e parlano volentieri della mia carriera ciclistica. Alcuni, però, non sono altrettanto entusiasti quando parlo del messaggio del Regno.
Oggi, quando sento il bisogno di fare un po’ di moto, vado in bici insieme alla famiglia. In quei momenti mi rendo conto di quanto siano vere le parole di Paolo: “L’addestramento corporale è utile per un poco; ma la santa devozione è utile per ogni cosa, giacché ha la promessa della vita d’ora e di quella avvenire”. — 1 Timoteo 4:8. — Narrato da Jean Vidament.
[Riquadro]
Il Tour de France
Il Tour de France, la corsa ciclistica su strada più famosa del mondo, fu istituito nel 1903. Si snoda su un percorso lungo dai 4.000 ai 4.800 chilometri e dura circa tre settimane, e attualmente termina a Parigi. Vi partecipano circa 200 corridori professionisti, che in questo giro attraversano la campagna francese facendo qualche puntatina nei paesi confinanti. Lungo le strade, folle di spettatori acclamano i concorrenti.
Ogni giorno, il concorrente che ha fatto registrare il miglior tempo totale indossa la maglia gialla. Chi è primo in classifica l’ultimo giorno è il vincitore.
Alcune delle tappe più corte sono prove a cronometro, in cui i singoli ciclisti o le squadre lottano contro il tempo. Nelle prove a cronometro a squadre, un determinato numero di ciclisti appartenenti alla stessa squadra devono finire la tappa in gruppo, arrivando tutti contemporaneamente.
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[Modificato da EverLastingLife 26/05/2020 17:22] |